Chiamiamola ‘la squadra dei rimpianti’. Di ciò che poteva essere e non è stato. Facciamo solo un gioco, ipotizzando una formazione fantaviola composta da quei giocatori che in un passato, anche non lontano, hanno vestito la maglia viola. Calciatori che se ne sono andati sbattendo la porta o in modo sommesso, in punta di piedi. Tutti, però, ci hanno lasciato un pizzico di nostalgia. Come una potenzialità non totalmente espressa qui a Firenze.
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Iniziamo dal portiere. Qui la scelta è facile. Non occorre neppure sforzarsi con la memoria. Corriamo subito a soccorrere quel portierino brasiliano che alle prime apparizioni ci faceva prendere paura. Norberto Neto dietro quell’apparenza banale ha sempre nascosto la follia del vero numero 1. Come spiegare altrimenti la sua noncuranza dopo quella ‘papera’ contro il Grassoppher nella gara di ritorno dei preliminari di Europa League stagione 2013-14 che costò la sconfitta ma permise comunque il passaggio del turno grazie alla vittoria all’andata per 2 a 1? Chi scrive adesso berciò allora contro di te. Sbagliando. Perché avesti in seguito modo – con quella tua freddezza insostenibile per ogni attaccante ti si presentasse davanti - di fare ricredere tutti quei fiorentini brontoloni che in te non ci credevano. Dopo, sei stato ancora più forte. Quando, annunciato il tuo polemico addio, hai ripreso il tuo posto tra i pali. Contro il tuo stesso stadio. Contro ogni stadio. Perché la solitudine del portiere la provano solo i veri numeri uno. Che la panca alle spalle di Buffon sia per te eterna, caro Norberto.
In un’immaginaria difesa a quattro vediamo sulle corsie laterali due prodotti del settore giovanile viola lasciati partire probabilmente troppo presto. Il primo, sulla sinistra, è Danilo D’Ambrosio. Pochi se lo ricordano, ma fu portato alla Primavera della Fiorentina con gran clamore insieme al gemello Dario e altri cinque ragazzi di belle speranze da Corvino, tutti insieme presentati da Pantaleo come ‘i magnifici sette’. Nella sua versione giovanile, risalente oramai agli anni che vanno dal 2005 fino al gennaio del 2008 quando viene frettolosamente ceduto in comproprietà al Potenza in C1, Danilo giocava esterno offensivo mentre il fratello lo copriva nelle retrovie. Eppure il ragazzo del sud che puntava la rete avversaria accentrandosi o cercava l’assist per il compagno d’attacco Di Carmine non avrebbe sfigurato in tutti questi anni nella rosa della Fiorentina, se è vero che da due stagioni fa parte dell’Inter dopo quattro anni al Toro.
Il fiorentino Cristiano Piccini quel gol se lo ricorda ancora. Fine marzo 2011, all’Olimpico contro la Roma, nel 3 a 1 che vale la conquista della Coppa Italia Primavera c’è anche e soprattutto la sua firma. Grazie a quell’istante in cui, vedendo leggermente fuori dai pali il giovane portiere giallorosso, fa partire dalla destra un tiro cross beffardo e imparabile che vale il 2 a 1. Come lui se lo ricordano in tanti. Basta rivederne le immagini su youtube. Quel ragazzo che corre felice verso la panchina di Buso, il tecnico che ha il merito di averlo arretrato da attaccante a esterno difensivo destro, è proprio lui. La speranza di tutti è che la sua cessione al Betis, a titolo definitivo con diritto di riacquisto, sia solo un arrivederci.
Centrale difensivo della nostra squadra è un altro protagonista di quella Primavera di cui era il capitano, Michele Camporese. Come avere un futuro radioso ma rimandare questo momento sempre più in là. Sembra questo il percorso del giovane Camporese. Esordisce in Serie A diciottenne a San Siro, subentrando a Natali, per marcare Ibrahimovic e la settimana dopo gioca a Torino contro la Juventus. Segna un gol a Palermo e si pensa di avere trovato un titolare per i prossimi dieci anni. Non sarà così. Infortuni e anonimato in Serie B ne rallentano la crescita, fino alla cessione definitiva di questa estate all’Empoli.
L’altro centrale difensivo è Stefan Savić. Vero che la sua partenza destinazione Atletico Madrid ha coinciso con l’arrivo di Mario Suarez e dieci milioni di euro, ma le prime uscite della Fiorentina stanno mostrando le difficoltà del reparto arretrato viola. Dove ormai la coppia Gonzalo – Savic dava garanzie completandosi i due dal punto di vista tecnico e fisico. Sta a Sousa trovare la giusta soluzione per sostituire il montenegrino, modificando nel caso anche l’assetto tattico, in attesa del migliore Astori, come ha fatto contro il Torino optando per una linea a tre con Roncaglia a sinistra e Tomovic a destra di Gonzalo e sulle fasce Alonso e Gilberto.
Francesco Magnanelli ha ormai superato i trent’anni, è capitano e primatista di presenze col Sassuolo e la sua storia ormai si è svolta altrove. Quando giocava nella Primavera della Fiorentina allenata da Luciano Bruni, però, si era fatto notare da Mondonico che lo aveva aggregato alla prima squadra. “Non abbiamo centrocampisti come lui” – dichiarò una volta Emiliano – “Sa giocare davanti alla difesa e in prospettiva può farci comodo”. Non è andata esattamente così. Eppure un titolo della Nazione di quei giorni recitava, prendendo spunto da un paragone fatto proprio da Bruni: “Si chiama Magnanelli ricorda Paulo Sousa”.
Sulla fascia destra ecco Juan Cuadrado. Passano così in fretta ormai i giocatori, nel giro di un anno cambiano tre squadre e diventa difficile affezionarcisi. Eppure con il colombiano è stato diverso. Perché il dribbling è l’esaltazione della fantasia, la rottura degli schemi e, fino a quando non si è narcisisticamente innamorato del pallone, Juan è stato determinante con la sua capacità di saltare l’uomo. Di lui ci piace ricordare un piccolo episodio normalmente insignificante. Quando, il 21 gennaio di quest’anno in occasione del turno di Coppa Italia contro l’Atalanta, la Fiorentina invitò i bambini delle scuole allo Stadio Franchi. Accompagnati dai genitori, provate a indovinare verso chi erano indirizzati i maggiori cori dalla maratona? Proprio a lui, ormai sicuro partente ma con il sorriso più largo del mondo dedicato ai suoi piccoli tifosi.
Sull’altra fascia, chiedendogli un sacrificio, ritroviamo Joaquin. Come se non lo avessimo perso. Lui che se ne è voluto andare. Puntava l’avversario come il toro fa col torero per poi, però, scansarlo. Lui che festeggia ogni gol mimando il gesto del matador che provoca con la muleta il toro prima di colpirlo a morte con la spada. Quando lo abbiamo visto così felice di fronte alla sua gente, quei ventimila sivigliani accorsi al Villamarin per riceverlo, tributargli il primo caloroso olé, abbiamo volutamente dimenticato quei messaggi su twitter, per noi offensivi, di abbandono della causa fiorentina. Sì, al di là del contratto, avevi davvero voglia di tornare a casa tua. E nei cuori di tutti noi rimarrà per sempre il gol alla Juve di contorno a quelli di Pepito.
C’era un ragazzo con ‘una faccia da schiaffi’. È un modo di dire. Solo che quella faccia gli schiaffi, quel brutto giorno in mondovisione, li ha presi davvero. Quel che avviene il 2 maggio 2012 ha dell’incredibile. Alla mezz’ora del primo tempo di una partita altrimenti dimenticabile come quella con il Novara, con i viola in svantaggio di due reti, l’allenatore richiama il giovin calciatore che poco sta rendendo in campo. Non si saprà mai né ha importanza che cosa abbia detto a denti stretti Adem Ljajić mentre esce dal campo per dirigersi in panchina. Di sicuro Delio Rossi percepisce il peggio possibile vista la spropositata reazione che lo trasforma da pacifico signore di mezza età in scatenato boxeur. Un colpo, poi un altro, l’agitazione in panchina è tanta mentre i compagni della vittima che si para il volto accorrono a separare i due. Un anno dopo la situazione è cambiata. A Genova la Sampdoria di Delio Rossi ospita la Fiorentina di Montella dove uno dei giocatori più in forma è proprio lui, Ljajić. Ci si aspetta una stretta di mano, qualche parola. Niente di tutto questo. La risposta arriva dal campo. Il gol di Ljajić (nel 3 a 0 finale) è beffardo come quella faccia che, nonostante gli undici gol realizzati nella stagione, rimane da schiaffi.
Jo–Jo era la gioventù. Chiamandolo così già gli si voleva bene, a Stevan Jovetić. Talento puro, fu facile paragonarlo a Baggio. Determinante in Champions League contro il Liverpool a Firenze con una doppietta, ma la seconda doppietta purtroppo non basta contro il Bayern Monaco quando in pratica finisce il ciclo di Cesare Prandelli. Piano piano il rapporto si sgretola a causa di infortuni giudicati dall’ambiente viola eccessivi, così quando lascia la Fiorentina per il Manchester City il suo addio passa quasi inosservato anche a causa del contemporaneo arrivo a Firenze di Mario Gomez, un centravanti tedesco di 28 anni che ha appena vinto Champions League, Campionato e Coppa di Germania ma lascia il Bayern Monaco per venire nella città del giglio.
Toni … e … furmini recitava quella maglietta viola. Che ancora adesso va di moda ma con i colori gialloblu. Al primo campionato con la Fiorentina, grazie ai suoi 31 gol, Luca Toni diventa il primo calciatore italiano ad aggiudicarsi la “Scarpa d’oro”, trofeo assegnato al miglior realizzatore in Europa. Nella seconda vita calcistica in maglia viola segna 8 reti. Che non bastano per la riconferma. Ancora troppo giovane per ritirarsi a fare il dirigente, col Verona Luca Toni continua a roteare la mano intorno all’orecchio.
Neto, D’Ambrosio, Piccini, Magnanelli, Savić, Camporese, Joaquin, Ljajić, Toni, Jovetić, Cuadrado. Una squadra sicuramente sbilanciata ma all’occorrenza dalla panchina possono subentrare Felipe Melo, Christian Maggio, Angelo Palombo e altri ancora…
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