IL PRESIDENTE DEL 2° SCUDETTO

Baglini, ipse dixit: “Per lo scudetto serve rischiare e l’appog­gio della stampa”

Riproponiamo un'intervista che il presidente della Fiorentina del secondo scudetto rilasciò al "Guerin Sportivo" nella primavera del 1977. Uno spaccato di storia viola che ripercorre il decennio fra il 1967 ed il 1977 attraverso le parole del...

Roberto Vinciguerra

NELLO BAGLINI: RICETTA PER UNO SCUDETTO [TRATTO DAL "GUERIN SPORTIVO" DEL MARZO 1977]

L'ex-presidente della Fiorentina tricolore del 1969 non ha perduto la verve e la saggezza che lo distinsero fra i « boss » del calcio. Un po' per celia - ma anche molto sul serio - dice cosa occorre per vincere un campionato:  l'amicizia dei giornali, un buon portiere e un discreto allenatore.  A suo tempo dal calcio ebbe tutto

MILANO - Nel 1967 Nello Baglini stava costruendo la Fiorenti­na da scudetto. Diventò poi cam­pione d'Italia nel 1969. Ma aveva davvero programmato lo scudet­to o invece ci arrivò per caso, per una serie fortuita di circo­stanze?

«Programmare lo scudetto è difficile, si arriva a vincerlo per tanti fattori».

- Quali sono?

«Prima di tutto la stampa. Sarò un fissato ma la penso così. Io al primo posto metto la stampa. Per avere una grossa squadra occorre una stampa che la so­stenga. E la stampa la sostiene dietro a un lavoro dei presiden­ti e di chi se ne occupa».

- E la sua Fiorentina...

«Adesso ha una bella squadra, ma non ha più la stampa dei miei tempi. Di recente ho visto sul "Corriere della Sera" un Fio­rentina-Genoa relegata in fondo alla pagina con un titoletto a tre colonne».

- Lei veniva in redazione a farci i titoli...

«Ma andavo anche da Gualtiero Zanetti e da Gianni Brera e con loro, come con Alberto Rognoni, sono sempre in ottimi rapporti. Mi sono allontanato dal calcio ma mi sono rimasti gli amici che il calcio mi aveva procurato».

- Dicevamo dello scudetto...

«Per arrivarci occorre l'appog­gio della stampa che conta. E posso dire d'aver cominciato a costruire la Fiorentina da scu­detto con i giornalisti di Mila­no».

- A Firenze la contestavano an­che per questo...

«Lo so, Giordano Goggioli è un amico (e mai siamo stati amici come adesso che anche lui è an­dato in pensione e ha lasciato "La Nazione" ai giovani). Ma allora non lo trattavo da "padrino" e aveva l'impressione di essere snobbato, Ma anche adesso, se voglio sapere cosa è successo in Italia e nel mondo, piglio il "Cor­riere". Goggioli aveva le sue idee, io le mie, ci siamo sempre com­portati come due spadaccini, ma devo dire che questo non ha mai incrinato la nostra amicizia, che è sempre stata sincera».

- Dopo l'appoggio della stampa nazionale, per diventare campio­ni d'Italia cosa occorre?

« Occorre un grande portiere nel­l'annata felice. Se non hai un portiere eccezionale, sei fregato. Il portiere deve essere in for­ma per tutto il campionato. Ba­sta che sbagli un paio di parti­te per rovinare tutto».

- E l'allenatore?

«Lo metto al terzo posto. E' im­portante pure lui, perché certo influisce nella conquista dello scudetto, come influisce se la squadra va in B. Per diventare campioni d'Italia occorre l'alle­natore vincente e noi lo pigliam­mo: Pesaola. Era l'allenatore giu­sto al momento giusto. Arrivava dopo l'ottimo lavoro di Bassi e di Ferrerò e in precedenza di Chiappella. Pesaola è un vincen­te, è uno che anche nella vita ri­schia ».

- Nella vita, rischiando, ha pre­so anche grosse fregature...

« Ma si vede che a Firenze sia­mo stati noi a portargli fortu­na. Però il rischio è necessario. Liedholm, ad esempio, non vin­cerà mai uno scudetto (e non l'ha vinto nemmeno a Firenze) perché è uno che preferisce non perdere. E per arrivare allo scu­detto bisogna anche vincere, oc­corre rischiare. Pesaola era la persona giusta».

- La stampa, il portiere, l'alle­natore. Basta così?

«Magari! Occorre anche una si­tuazione ambientale favorevole ed è necessaria pure la fortuna. Lo dissi subito dopo aver vinto lo scudetto. Se un pallone pic­chia il palo e torna in campo è sfortuna. Se invece rimbalza sul legno e va in porta non è fortu­na, è gol, serve per vincere, rima­ne nella classifica».

- Lei fu considerato un presi­dente dittatore. Ritiene che que­sta sia la formula giusta?

«Certo. Non si può coinvolgere troppe persone nella scelta del­le decisioni. Vengono fuori trop­pe voci, che finiscono per distur­bare il lavoro. Quando vincem­mo lo scudetto a Firenze erava­mo in cinque, era il numero giusto, non bisognava nemmeno fare il Consiglio. Bastava un fi­schio per trovarci».

- Cos'è cambiato nel calcio dai suoi tempi ad oggi?

«E' cambiato tutto: scarpe, pal­lone, cervelli. Il gioco è progre­dito sotto l'aspetto dello spetta­colo nel senso che è migliorato come velocità e precisione. Però non si vede più quel sano ago­nismo provinciale, è diminuito lo spirito di bandiera».

- Lei in Lega si era sempre bat­tuto contro gli stranieri. E' an­cora della stessa idea?

«Allora era necessario protegge­re i nostri giovani, perché sta­vano spuntando tanti Chiarugi e perché dall'estero arrivavano so­lenni bidoni. Ora è diverso. Basti considerare che migliori in cam­po risultano sempre gli ultra trentenni, da Albertosi a Mazzo­la. A questo punto gli stranieri, sarebbero necessari».

- La Fiorentina dopo di lei ha ceduto De Sisti, lei l'avrebbe fat­to?

«Mai. Perché De Sisti oltre ad essere in gamba (ancor oggi mi diverto a vederlo in TV con la Roma e ì suoi passaggi sono sempre perfetti) è un elemento catalizzatore, fa giocare gli al­tri. Esposito e Merlo, era lui a farli correre».

- Il suo giudizio su Merlo?

«Anche se qualcuno lo conside­rava un doppione, Merlo è di­verso da De Sisti. Ha più fanta­sia, ma non è un uomo-squadra. De Sisti, invece, quando arrivò da Roma giovanissimo era già un regista, teneva uniti tutti i compagni».

- E Antognoni?

«Non è un De Sisti. Nella Fio­rentina di Antognoni risaltano più certi valori individuali, De Sisti invece riusciva ad aumen­tare il livello di tutti gli altri».

- Eppure per Antognoni hanno offerto tre miliardi, ma Ugolini non lo dà perché dice che è co­me il Campanile di Giotto e ap­partiene alla città di Firenze. Lei nei panni del suo successore co­sa farebbe?

«Io Antognoni per tre miliardi lo darei».

- Lei aveva propugnato la linea-verde. E anche la Fiorentina at­tuale segue questa linea. Si può considerare dunque continuazio­ne di un discorso iniziato all'e­poca dello scudetto?

« No, la mia Fiorentina-baby era diversa. Noi i giovani li lancia­vamo per convinzione, adesso Mazzone li lancia invece per ne­cessità. I giovani bisogna immet­terli in squadra a turno, per po­tersi rendere conto del loro va­lore. Adesso a Firenze li fanno giocare quando non ci sono al­tre soluzioni, è diverso ».

- Secondo lei Mazzone è un al­lenatore da Fiorentina?

«L'ho conosciuto, è un uomo di notevole qualità. Ma ha l'handi­cap di arrivare da Ascoli Piceno. Non è che Firenze rispetto a To­rino, Milano e Roma sia una grande città, però non è una cit­tà di provincia. Mazzone ha com­messo l'errore di portare a Fi­renze giocatori di provincia (co­me Gola e Bertarelli) convinto che avrebbero reso come là. Non si è reso conto delle diverse con­dizioni ambientali. Ad Ascoli tut­ta la squadra giocava per Gola e Bertarelli, a Firenze dovrebbero essere loro a giocare per la squadra».

- Cosa manca a questa Fioren­tina?

«Manca un rapinatore di gol che sfrutti l'ultimo passaggio di An­tognoni. Basterebbero un Hamrin, un Clerici o un Maraschi dei miei tempi. Antognoni passa la palla-gol, ma a chi?».

- Secondo lei perché Rocco non si era ambientato a Firenze?

«Perché è difficile ambientarsi a Firenze per uno che è stato tanti anni a Milano».

- Lei avrebbe mandato via Ra­dice?

«No, perché dei giovani era quel­lo più adatto a costruire la Fio­rentina da scudetto. Il suo di­vorzio non l'ho capito. Forse si è dato retta a certi pettegolezzi che ho sentito anche io, ma i dirigenti non dovrebbero mai dar retta ai pettegolezzi. Senza con­tare che uno può benissimo esse­re un grande playboy e al tempo stesso svolgere nel migliore dei modi il suo lavoro di allenatore. Che c'entra?».

- Come vede la strana coppia Bernardini - Bearzot in Nazionale?

«Io sono un estimatore di Ber­nardini. L'età non conta, conta solo lo spirito. Sarebbe bastato affiancargli un Bassi della situa­zione. Non si può essere in due a prendere certe decisioni».

- Lei aveva grande fiducia in Bassi...

«Come preparatore è formidabile, inoltre si schiera sempre dalla parte dei giocatori. Però ha dei limiti diciamo così, sul piano culturale».

- Lei l'aveva preferito a Herre­ra..

« No, poi accettai di sostituirlo con Pesaola. Mi opposi all'ingag­gio di Herrera, perché secondo me H.H., abituato a "drogare" i giocatori con grossi premi, era un allenatore da grande squadra. Non avrebbe potuto guidare la Fiorentina con i sistemi dell'Inter».

- Come ricorda Pugliese Oronzo?

«Un uomo da trincea, un buon contadino, che ci è venuto utile al momento opportuno».

- Come spiega che la Fiorentina non ha catturato Valcareggi, quando Valcareggi ha lasciato la Nazionale?

«Non me lo spiego. Per me Fer­ruccio era l'allenatore adatto per il rilancio della Fiorentina. E non lo dico per amicizia, ma per­ché lo penso veramente. E' uno che di calcio se ne intende, e nessuno ora ha la sua esperien­za».

- Lei aveva creato vivai in tutta la Toscana. Come mai la Fioren­tina ha poi abbandonato questa politica?

«Non lo so, perché i frutti erano stati buoni».

- Con lei, la società aveva anche una rivista, «Alè Fiorentina»...

«Ma quella la faceva Senatori, che ora è passato al Prato e fa quindi "Alè Prato". Se ne è an­dato anche Ristori: pure lui era un elemento prezioso».

- Con don Vincenzo Sabatini per il settore giovanile litigavate spesso...

«Perché mi accusavano di essere un dittatore. Io lo lasciavo dire, ma poi facevo sempre di testa mia».

- Non è strano che nella Fioren­tina giochi anche il genero del presidente?

«No, Della Martira è un ragazzo modello. Gioca perché se lo me­rita. E Ugolini non condiziona certo Mazzone».

- Ora si dice che Ugolini lascerà al conte Pontello...

«Non è la prima volta che il conte Pontello si fa avanti. Ma secondo me esamina troppo i li­bri contabili. Non si può prende­re una società con la mentalità dei ragionieri, ci vuole sempre un certo rischio».

- E' servita secondo lei la tra­sformazione in SpA?

«Certo. Le responsabilità fiscali con conseguenza anche di ordine penale, servono da freno, per non eccedere. So che nessuno è in regola anche adesso, figuria­moci cosa sarebbe successo se non ci fossero le SpA».

- Ai suoi tempi si amministra­va anche con i fondi neri...

«Si sapeva che le società non avevano fini di lucro e quindi la Finanza guardava con occhio be­nevolo i nostri libri contabili. Ma non è che i giocatori fossero trattati particolarmente bene.

So­lo volevano i soldi al netto delle tasse. E quindi le tasse dovevano pagargliele le società. Questo pe­rò avveniva solo per i grossi ca­libri: Hamrin, Albertosi ecc.».

- Come giudica i guadagni at­tuali dei giocatori?

«Esagerati. Anche se c'è stata un'inflazione del 100 per cento, gli stipendi dei giocatori rispetto ai miei tempi sono triplicati. So­no aumentati più delle patate che importiamo dalla Svizzera».

- Chi le ha dato più grattacapi per il reingaggio?

«Nicea Tavares De Silveira, che veniva a trattare per il fratello Amarildo. Ma io non potevo sop­portarla nemmeno fisicamente e così la smistavo subito all'amico Senatori ».

- Ora i calciatori parlano di autogestione. Rivera e Mazzola dicono di voler seguire le orme di Boniperti.

«Ma Boniperti è diventato pre­sidente della Juventus perché era un funzionario IFI. E Agnelli l'aveva inserito nell'azienda per­ché aveva le qualità del manager non perché aveva giocato al pal­lone. Se i giocatori sono così bravi come dirigenti d'azienda alla fine della carriera si creino un'industria propria oppure fac­ciano gli ex giocatori. Se proprio vogliono rimanere nel calcio fac­ciano gli allenatori o i direttori sportivi. E' assurdo che Fraizzoli lasci amministrare i suoi soldi da Mazzola. Io i miei soldi li voglio amministrare con il mio cervello».

- Nel suo ufficio ha tanti ricordi della Fiorentina: bandiere, foto, scudetto. Non ha qualche rim­pianto?

«I sette anni del calcio sono sta­ti i sette anni più belli della mia vita. Ho raccolto i ritagli di quel­l'epoca in un volume e ogni tanto Io sfoglio con nostalgia. Ma è un ciclo che ormai si è chiuso.

Adesso vado in Indonesia...».

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