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GERMOGLI PH: 2 NOVEMBRE 2025 FIRENZE STADIO ARTEMIO FRANCHI SERIE A FIORENTINA VS LECCE NELLA FOTO TIFOSI FERROVIA
Due allenatori di una stessa generazione, due modi simili e opposti di intendere il calcio, uniti da una parola che oggi sembra fuori moda: sobrietà. Nel tempo delle urla e delle panchine isteriche, due uomini di campo scelgono la misura, la compostezza, la coerenza.
Donadoni che torna, Pioli che cade.È un incrocio tra professionisti che, per anni, hanno rappresentato due volti diversi di uno stesso stile di calcio: sobrio, educato, fortunato a metà. Roberto Donadoni e Stefano Pioli appartengono alla generazione di allenatori nati a cavallo degli anni Sessanta, figli di un calcio meno urlato, più tecnico e più umano. Entrambi ex calciatori di qualità (Donadoni, uno dei tanti figli di Sacchi, con più successo), si sono distinti per discrezione e competenza, senza mai diventare personaggi.
Entrambi rappresentano la generazione di tecnici che ha vissuto il passaggio dal calcio artigianale a quello industriale: hanno studiato, aggiornato i propri metodi, accettato l’idea che il calcio oggi richieda più psicologia che schemi, ché quelli, più o meno, li conoscono tutti. Entrambi un po’ fuori moda, se si vuole.
Senza slogan, senza urla, con la forza della misura. Accusati di avere scarsa personalità perché, in un mondo di strepiti, chi è educato spesso viene scambiato per debole. Donadoni, con il suo tono basso, sembra voler ricordare che il mestiere dell’allenatore non è quello del motivatore televisivo. Pioli, nel silenzio dell’uscita, ribadisce che si può cadere senza trasformare la sconfitta in un processo mediatico in cui i colpevoli sono gli altri.
Entrambi hanno provato l’avventura in campionati esotici, e poi sembrano aver perso la bussola. Donadoni, che è stato un ct sottovalutato, dopo l’esperienza in Cina non allenava da cinque anni. Il suo ritorno ieri in Serie B, a La Spezia, in una piazza complicata e passionale, ha il sapore del ricominciare. Non una questione di nostalgia, ma di necessità: il campo, alla fine, manca più della ribalta. Donadoni a sessant’anni ha scelto di deporre la sacca da golf, rimettersi in gioco, rientrare dalla porta laterale, con la compostezza di chi sa che il mestiere dell’allenatore vive di cicli, di cadute e risalite.
Non è un ritorno mediatico, è un ritorno calcistico. Perché il calcio, quando lo ami davvero, non ha gerarchie di categoria. E per sorridere va bene anche un 1-1 nei bassifondi della B.
Anche quello di Pioli a Firenze è stato un ritorno: solo che è sempre pericoloso tornare dove si è stati bene. Rischio delusione: altissimo. È finita con un esonero dopo un inizio di stagione che più nero non si può, tra polemiche e volgari accuse di soldi. Proprio come nei peggiori divorzi. Messo malamente fuori dopo settimane di tensioni, risultati modesti e un ambiente che chiedeva un segnale.
Solo pochi anni fa, quando era on fire sulla panchina del Milan scudettato, era il volto di un tecnico che sapeva costruire, vincere e unire. Lo scudetto come premio alla coerenza di un allenatore capace di creare un gruppo. Un volto da esportazione, se è vero che anche lui, dopo il Milan, ha tentato un’esperienza in Arabia, certo ben retribuita, ma che mostra bene come sia complicato reinserirsi dopo l’assaggio di un calcio diverso.
D’altra parte, persino un vincente come Mancini, l’altra sera, era in tribuna al Vélodrome a studiare Marsiglia e Atalanta, perché dopo la scelta scellerata dell’Arabia, dove è stato ct per soli 14 mesi, ancora non ha trovato un porto da cui ripartire. Come se per gli allenatori rientrare nel calcio d’eccellenza fosse persino più difficile che per i calciatori.
Cannavaro (che ha vinto qualche titolo in Cina e in Arabia) quando torna in Italia va in B a Benevento, dove finisce con un esonero, e poi conta una manciata di gare con l’Udinese, con salvezza raggiunta ma mancata conferma. E ora è ripartito dall’Uzbekistan.
Storie diverse, ritorni diversi (con un po’ di speranza: dopo un periodo alla Pioli, c’è sempre un periodo alla Donadoni).
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