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L'ex attaccante di Fiorentina e Sampdoria, Francesco Flachi, ha parlato a 360° della sua esperienza calcistica ai microfoni di Radio Tv Serie A. Questi alcuni degli argomenti trattati:
Ho sempre tifato la Fiorentina. Sono cresciuto con il mito di Antognoni, Baggio e Rui Costa. Il dispiacere che ho oggi è vedere i ragazzi che alleno e pensare agli idoli con cui stanno crescendo. Io ho avuto la fortuna di avere come riferimento campioni che mi hanno permesso di capire come crescere in uno spogliatoio. Sono stati dei maestri. È un pò quello che sta succedendo adesso con il Viola Park. Ho detto a mio figlio che se avessi avuto l'opportunità di allenarmi da giovane in quel centro sportivo sarei stato da Pallone d'oro, perché non sarei mai uscito dal campo. Un giovane deve imparare anche solo guardando dai più grandi, cercando di capire qualsiasi cosa: dal come si tirano i rigori a come si portano i parastinchi. Gli anni alla Fiorentina? Per me, purtroppo, il calcio era un gioco. L'ho vissuto con leggerezza. La mia spensieratezza però mi aiutava anche in campo ad avere estro. Ero genio e sregolatezza, forse più la seconda a volte. All’inizio sono stato un mese nello spogliatoio di sopra, da solo, a cambiarmi: una volta era così, c’erano delle regole e dovevo guadagnarmi il rispetto. Non mi lavavano nemmeno le cose, dovevo sempre portarle a casa. Poi mi hanno messo in spogliatoio vicino a Batistuta, che è stato un maestro di vita. Mi rimproverava tanto quando facevo qualche sciocchezza. In campo, invece, Baiano è stato un maestro. Ho cercato di rubare il più possibile da lui con gli occhi. Un aneddoto su qualche compagno? Ce ne sono tanti su Edmundo. Ci fu un Fiorentina-Roma dove Trapattoni scelse di toglierlo e ci furono degli screzi nello spogliatoio. Tornati a Firenze, credevamo che il mister lo avrebbe rimproverato, invece disse: ‘Ho sbagliato io!’. Non è stato solo quello, ci sono stati altri episodi. Una volta stava sbagliando tante giocate e il Trap lo riprese. Edmundo si girò verso di lui e gli disse: “Vecchio, lei stia zitto, io faccio quello che voglio in campo”. Silenzio totale! In quegli anni però eravamo una grandissima squadra. La dipendenza dalla droga? Era diventato un divertimento, cosa sbagliatissima. Il malessere mi ha portato a sentirmi meglio soltanto in quel modo. Pensi sempre di smettere, ma diventano problemi accumulati. Poi sono rientrato, ma la tentazione rimaneva. Sono stato fermato dopo una partita, giustamente. Lì ho iniziato a capire. Davo continuità alla cosa perché mi faceva sentire più forte. Mi squalificarono per due anni, la presi male. Pensavo di rimettermi in sesto, ma non fu così. Sono andato ancora più giù, non ripartivo più. Avevo un castello e l’ho fatto crollare. Devi renderti conto da solo di quello che stai facendo, devi avere la forza giusta. Io in campo avevo un carattere forte, fuori ero debole. Facevo fatica, mi isolavo e non ne parlavo con nessuno. Alcuni hanno provato ad aiutarmi, ma poi devi saper reagire da solo. Pian piano le cose si sono sistemate, ho risolto i problemi e sono diventato un altro Francesco. Ricordo di Napoli? Moggi mi chiamò a Napoli, sono rimasto per tre giorni al centro sportivo. In quelle mattine mi sono goduto Maradona, lo guardavo mentre si allenava. Non capivo ancora la sua grandezza, ero troppo piccolo. Piano piano mi sono reso conto del giocatore che era: è stato un bel vedere. Stavo firmando con il Napoli ma poi andai alla Fiorentina, che era la mia squadra del cuore. Come spiegammo a Moggi la scelta? Dicendogli che da Firenze avevano pareggiato l’offerta, ma non era vero. Ero piccolo, mia madre non voleva che andassi via da casa e scelsi Firenze. A volte il cuore comanda.
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