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L'imbucata

L’Atalanta e qualche lezione da imparare

Magrini
Fiorentina e Atalanta sono le uniche squadre che si sono inserite nella lotta europea insidiando il posto alle solite note, ma tra le due società ci sono molte differenze.
Matteo Magrini

Premessa, sia mai che qualcuno s'offenda: i Percassi ci hanno messo anni prima di portare l'Atalanta lassù. Detto questo, ci sarebbe poi da ricordare quale sia la storia della Dea e quale, invece, quella della Fiorentina. Perché sennò è come se ad un certo punto qualcuno comprasse la Juventus e, dopo qualche anno passato tra anonime salvezze ed un paio di piazzamenti europei, replicasse alle critiche dicendo che “De Laurentiis, prima di vincere uno Scudetto, ci ha messo 20 anni”. Sarebbe, appunto, quantomeno azzardato come parallelo.

E' giusto ribadirlo quindi, soprattutto a chi dimentica o finge di dimenticare il passato. La Fiorentina non è l'Atalanta e Firenze non è Bergamo. Se oggi insomma questo match è diventato una specie di “clasico” tra le uniche due squadre che negli ultimi anni si sono infilate nella lotta tra le solite note (in questa stagione si è aggiunto il Bologna) è perché i nerazzurri hanno costruito qualcosa di oggettivamente clamoroso rispetto (appunto) alla loro storia. Per i viola invece lottare per l'Europa dovrebbe essere la normalità. Né più, né meno. Il problema però è che ora come ora l'Atalanta si presenta a questa sfida da favorita, con una classifica migliore, e con una rosa che da diversi anni ormai le permette di presentarsi ai nastri di partenza con parecchie (e legittime) ambizioni in più rispetto al club di Commisso.


O c'è qualcuno che pensa che quella di Italiano sia una squadra anche solo minimamente paragonabile a quella di Gasperini? Musso/Carnesecchi in porta; Scalvini, Kolasinac, Hien, Toloi, Djimsiti in difesa; Holm, Koopmeiners, Pasalic, Ederson, De Roon, Bakker (acquistato in estate per 10 milioni), Ruggeri, Adopo, Hateboer e Zappacosta a centrocampo. Per non parlare dell'attacco: Tourè, Scamacca, De Ketelaere, Miranchuk e Lookman. Quanti di loro, tanto per capirsi, farebbero panchina nella Fiorentina? E quanti, invece, sarebbero titolari? Un “roster” costruito negli anni, con una programmazione che alla fine ha portato la Dea a potersi permettere anche giocatori da 30/35 milioni. E questa è una delle (enormi) differenze con la Fiorentina. Anche da quelle parti vendono e hanno venduto fior fior di giocatori (mai a gennaio però, perché la priorità è sempre il risultato sportivo) ma ogni volta, senza eccezioni, hanno reinvestito quanto incassato per portare avanti il percorso.

Vendere bene, acquistare benissimo. Potremmo metterla così, riadattando le parole che Italiano scelse per descrivere che tipo di mentalità volesse dalla sua squadra. Una filosofia possibile solo se si hanno grandi competenze e se si lasciano da parte altri interessi o improvvisazione. E così oggi l'Atalanta è una società che grazie ai risultati sul campo fattura (circa) 50 milioni in più della Fiorentina e tra l'altro quanto successo negli ultimi 12 mesi dovrebbe aver fatto capire alla proprietà viola quanto si possa crescere anche senza uno stadio di proprietà. Grazie al percorso europeo infatti, alla finale di Coppa Italia e alla partecipazione alla Final Four di Supercoppa, i viola hanno appena chiuso un fatturato da record riducendo parecchio il gap con la società dei Percassi. Ciò non significa sminuire l'importanza delle infrastrutture, sia chiaro, ma ribadire che si può far buon calcio comunque.

Sarebbe fondamentale, per esempio, lavorare su continuità, condivisione e senso di appartenenza. A Bergamo l'hanno fatto, dando enorme fiducia a Gasperini e facendo sempre e comunque di tutto per assecondarne le esigenze. Non solo. Hanno lavorato per unire, mai per dividere, creando un'unione granitica tra tutte le componenti e, soprattutto, con la città. Un tema, questo, di cui dentro la Fiorentina evidentemente faticano a comprendere l'importanza. Se c'è un'arma infatti che una piazza come Firenze (così come Bergamo) può giocarsi per provare a colmare il gap con le grandissime città è esattamente quella: l'unione. Vuol dire sapersi confrontare con le critiche, capire l'anima della gente, accettare il confronto sostenendo le proprie posizioni senza che questo voglia dire “combattere” o dividere tra buoni e cattivi, tra tifosi veri e non.

Dettagli, per qualcuno, ma non è così. E' (dovrebbe essere) quella la base su cui costruire. Ricordandosi che “guidare” un popolo (o un governo, o una società di calcio ecc ecc...) è ben diverso dal sentirsene “padroni”. Perché le guide verranno sempre seguite mentre i padroni, alla lunga, finiranno per essere mollati.

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