Troppo tardi
—Il campionato italiano era allora il punto di partenza per conoscere la sostanza dei giocatori da mettere dentro (ma non una prova esauriente: anche Brekalo aveva fatto benino al Toro - ma l’anima? - e anche Barak aveva fatto benissimo al Verona, con tanto sentimento). Per questo ci piaceva Ngonge e ci entusiasmava Gudmundsson, che pure ha molto campo nell’organizzazione di gioco del Genoa, ma ha una fame, una gamba, una personalità e anche una capacità di rivoltare l’azione verso la porta avversaria che è sembrato subito di immaginarlo perfetto, ovunque Italiano l’avesse collocato. Ma un obiettivo così “rilevante”, l’interesse “definitivo” per un giocatore così in vista e in questo momento ai vertici della serie A (il più prolifico con Berardi e Soulé fra gli attaccanti sul perimetro) come può manifestarsi il 27 gennaio?
Il giro contrario
—Era una trattativa da impostare prima dell’apertura del mercato e arrivare a gennaio già consapevoli dei margini. Come ha fatto il Tottenham con Dragusin (e davanti ai rilanci e alle intrusioni del Bayern e del Napoli ha aggiunto cash e ha chiuso l’affare). E nel caso fosse stato chiara la refrattarietà del Genoa alla cessione o la tranquillità finanziaria da poter chiedere tanto, avere il tempo di guardare altrove. Invece è stato percorso il giro contrario. A credere alle stesse parole di Barone (e dobbiamo crederci) la Fiorentina ha sostanzialmente comunicato che c’erano soldi da spendere (20/25 milioni: tra l’altro sufficienti e abbondanti per prendere Ngonge). E non sono stati spesi in un momento della storia fra questa proprietà e questa città in cui si poteva saldare o rinsaldare un legame. In fondo (curiosamente) alla settimana in cui Palazzo Vecchio aveva trovato una quadra sullo stadio, una riuscita politica un po’ dispersa nella cronaca del mercato ma che rischiara decisamente l’orizzonte per proprietà e tifosi. Con la possibilità di competere nel “cantiere Franchi” per il prossimo anno (anche in caso di coppe europee) per avere un Padovani adeguato quello dopo. Per avere poi lo stadio nuovo, per mettere a referto (a vantaggio della proprietà) uno sconto sul canone in questo periodo a capienza ridotta e incassi diminuiti. Nelle ore in cui Gudmundsson si metteva di traverso alle palpebre dei tifosi. Inquilino dei pensieri più felici, si risolveva dunque una vicenda che sembrava ormai avvitata e che aveva alimentato una spirale di rifiuto, dissenso e contrasto fra le istituzioni e la proprietà, con qualche vago accenno di voto di scambio alle prossime elezioni.
Vicino, ma non troppo
—Tutto sembrava incanalarsi in un nuovo patto, trascinante, una cerimonia dal valore nel pezzo scorso definimmo politico e ripetiamo. “Quell’arte che attiene alla città, come atto di direzione del senso di appartenenza di una comunità”. Allora quel finale di mercato è stato un momento sprecato dove (qui il cronista, il tifoso, l’economista da curva s’impastano in po’) l’investimento appropriato poteva rivelarsi tale. Un investimento appunto, con il ritorno potentissimo di un ritrovato vertice del Campionato (approdo che è stato di tutte le proprietà “solide” dei viola, prima o dopo, va ricordato) e con la possibilità di riscuotere la cedola della Champions. Resta una vaga e insolente impressione che ci sia sempre la disponibilità dei milioni per andarci vicino e per Gud non sono bastati. E non è nemmeno strano perché l’obiettivo era davvero alto. La classifica marcatori lo appaia a Berardi (appunto, uno che già più anziano costava almeno 30 milioni) e Soulé, un ragazzo che la Juve non darebbe via forse nemmeno per il doppio. C’è stato un cortocircuito di tempo e di senso nella trattativa per Gudmundsson. Per questo motivo in avvio di pezzo si è parlato di una “costruzione” dell’insuccesso di mercato. Di una frustrazione allevata che torna addosso all’ambiente. Non ci sfiora l’incoerenza di dire che qualcuno dovesse arrivare: no, davvero. Meglio premiare Kouamè e Sottil che foraggiare qualche giocatore senza storia e qualche procuratore con troppe conoscenze. Gud era un messaggio autorevole e prestigioso alla Serie A sulle ambizioni della Fiorentina, e la cifra stessa era naturalmente parte di questo avviso. Se un mese fa fosse stato l’obiettivo chiaro e dichiarato, e se fosse stato evidente che era una trattativa a vuoto, con quei soldi c’era sicuramente meglio di Rodriguez in giro per il mondo.
La sconfitta di Lecce
—Siamo già andati oltre, appoggiando i gomiti sulla scrivania di chi questo lavoro lo fa, da anni, e merita comunque rispetto e non la superficialità di questi polpastrelli che battono tasti delusi. Perché poi è arrivata la partita, vissuta con questo groviglio emotivo lasciato in eredità dalla coda del mercato. E la sconfitta di Lecce è stata a suo modo un resoconto esemplare e il compendio dello stato d’animo della cittadinanza viola. Alla fine sembrava vinta ma la Fiorentina non è una squadra d’inerzia, non conosce rendita, non è mai battuta ma non è mai al sicuro, è una precarietà che non si è riusciti a rimediare.
È stata una partita emozionante ma non bella
—Un accumulo di episodi e di sporcizia. Qualche prodezza e molti errori che hanno ritmato e mescolato le speranze. La Fiorentina ha subito tanto, troppo, dappertutto. All’inizio, alla fine e anche nel momento in cui l’ha ribaltata perché poteva tornare in vantaggio il Lecce con Banda, solo davanti a Terracciano. Era troppo facile bazzicare l’area viola: il Lecce ha segnato 3 gol, colpito due legni a portiere battuto, e ha avuto almeno altre quattro limpide occasioni. Gli errori dei difensori restano sempre nella memoria, quello di Nzola ne riassume lo smarrimento ma è stato il centrocampo a non trattenere la partita. A parte la miglior mezz’ora di Mandragora in maglia viola, in scia alla bella rete. E a salire. Nel primo tempo l’inesistenza tecnica e agonistica dell’attacco (composto con una certa stravaganza) era la prima causa della serena partita del Lecce, per nulla verificato nella tenuta difensiva e anzi limpido e spavaldo e “liberato” nei contrattacchi con tanti uomini. Nella ripresa Belotti almeno ha mostrato immagini della vita di un centravanti, tra l’altro permettendo a Beltran di sentire e trovare la polpa della partita. (In quei minuti si forma nella testa un bozzetto, l’accenno di una composizione prossima. Beltran e Gonzàlez dietro Belotti, uno schema che raduni i migliori e preveda solo loro, lassù, oltre la teoria. Chiusa parentesi).
Che il campo scriva la verità
—Così, con poco, appena un connotato del suo calcio, della sua idea tenace, la Fiorentina era in testa, ed era già forte. Intenso il gusto di una squadra che si riprendeva il suo sogno, dimostrando una valore solidale che stava deviando questo pezzo verso la gratitudine: per averci fatto scordare Gud, e tutto il resto. Una partita alienata alla logica e alla giustizia che però ci confermava la supremazia del campo in questa storia. Aria pura, nel senso vero: purezza, fondamentalismo, perché tutto si concentra, si raggruma in quel terreno, nelle emozioni che provoca. Nei piacevoli inganni che produce e perpetua, fino a strappar via qualsiasi sogno o restauro o rabbia e lasciare che sia proprio il campo a scrivere la verità. Invece non c’è scampo. Oppure, semplicemente, la verità adesso è questa. E se prima era un’altra e se domani potrà tornare, saranno l’allenatore e i giocatori a ricostruirla, sarà il campo a mostrarla, e saremo qui a raccontarla.
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