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Il Don di Asti su Kean: “Giocava sul cemento. Per averlo scommettevano la merenda”

Il Don di Asti su Kean: “Giocava sul cemento. Per averlo scommettevano la merenda” - immagine 1
Kean raccontato da chi lo ha visto crescere. Le parole del parroco della comunità di Asti
Redazione VN

Don Roberto Pasquero, parroco della comunità di Asti racconta così (a Tuttosport) Moise Kean. Dalla semplicità e genuinità della comunità locale, ai più grandi palcoscenici del calcio nazionale. Ecco il suo racconto:

Tutte le volte in cui lo vedo in tv, penso: ecco il nostro Moise. Già allora si capiva, gli amici facevano a gara per prenderlo in squadra.


Don Roberto, Moise lo sente ancora?

—  

L'ho rivisto qualche anno fa, era venuto in oratorio e abbiamo scattato una foto. Ultimamente non passa più. C'è da capirlo: non è che Firenze sia dietro l'angolo....

L'ha visto con la Nazionale?

—  

Sì, per me è sempre una soddisfazione. Vedo tutte le volte se il nostro Kean ha segnato o no, se ha giocato bene o male. Vederlo così, con la carriera che ha fatto, fa piacere a tutti noi che l'abbiamo conosciuto. Ha raggiunto un traguardo, con l'azzurro. Speriamo lo mantenga più tempo possibile.

Cosa non ha funzionato alla Juventus?

—  

Per me alla Fiorentina ha trovato lo spazio per giocare partite intere, ha bisogno di un po' di tempo per carburare. Come contro il Belgio: è andato in campo venti minuti, era ingarbugliato. In viola ha spazio, non trova giocatori più forti davanti. O più famosi. Alla Juve magari era considerato l'ultimo arrivato. Mi pare che questi grandi club seguano il campione proveniente dall'estero e i giovani finiscano per andare di qua e di là, talvolta in prestito. C'è poi un altro fattore da considerare.

Quale?

—  

A Torino ha sempre avuto qualcuno davanti, ultimo Vlahovic. C'era spesso un calciatore su cui la Juve puntava di più, così Kean si è fatto illustre riserva. Poi magari c'è stata qualche questione personale con l'allenatore, ma naturalmente non giudico. Però qualcosa si è incrinato. A Firenze gioca e segna.

Ma lo nota diverso?

—  

Direi di sì. Da quando era ragazzino all'oratorio, di cose ne ha fatte. Gioca con l'Italia, è passato dall'Inghilterra, è andato in Francia. Ha messo la testa a posto, su.

Ed è diventato papà.

—  

Ecco, oggi ha responsabilità pure da educatore.

C'era qualcosa che le diceva: sarà un calciatore?

—  

Vedevo che giocava in continuazione. Persino da solo. Ad accorgersi del suo talento sono stati i tecnici dell'Asti. Ricordo che accompagnava suo fratello agli allenamenti: si metteva in un angolo ad aspettare, gli arrivava il pallone e... calciava. Gol.

Com'erano le sue giornate?

—  

Era qui praticamente tutti i giorni. Ma l'evento arrivava di domenica pomeriggio: sul campo di cemento, si svolgeva il Campionato del Mondo. C'erano ragazzi di origini albanesi, marocchini e della parte più sud dell'Africa. Ognuno voleva Moise. Si giocavano la merenda, averlo faceva tutta la differenza.

Racconta la storia di Moise Kean come esempio per i più piccoli?

—  

A volte sì, anche se in un certo senso non si ha l’idea totale del campione. Si può fare pure carriera, ma ai ragazzi ricordiamo che tocca far bene nel quotidiano, a prescindere dallo sport. Però è una bella storia. Possiamo dire che in questo cortile, con quel pallone e con queste strutture, qualcuno ha fatto strada. Fino alla nazionale italiana.

 

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