Ce l’ha messa tutta, Vincenzo Italiano. Dalle 8 alle 20 tutti giorni al Viola Park, senza quasi concedersi pause per viversi la città e conoscere meglio i fiorentini. Quando, tre anni fa, lo chiamo Pradè per portarlo a Firenze, aveva solo un obiettivo in testa: riportare la Fiorentina in Europa e coronare il sogno di allenare nelle coppe. La società invece gli aveva chiesto di dare un’identità alla squadra, uno stile di gioco in cui si riconoscessero i calciatori e la città stessa.
Corriere Fiorentino
Europa e gioco: Italiano ce l’ha fatta. L’allenatore saluta a testa alta
Da questo punto di vista, Vincenzo, nato a Karlsruhe (Germania) ma siciliano nell’animo, ha vinto. La sua Fiorentina è finita in un assurdo tritacarne di partite — 162 in tre stagioni —, eppure ha saputo sempre tenere la testa alta. Coi suoi limiti, i gol che non arrivavano, la difesa fin troppo alta e il mercato austero, ma sempre con quello spirito mai domo che ha consentito di rincorrere tre trofei e qualificarsi tre volte all’Europa. Italiano, il piccolo Conte, ha usato spesso il bastone per riuscirci. Coi suoi giocatori infatti è stato un martello. «Per entrargli nella testa», ha sempre spiegato lui. Nei pochi allenamenti aperti alla stampa si potevano ascoltare urlacci, toni spiccioli, anche qualche eccesso. Tutto, da buon sergente di ferro, per spronare tutti a dare il meglio di loro stesso, a concentrarsi, a pretendere di più. Da ambizioso ossessionato dalla vittoria, se ne andrà con il rimpianto delle coppe perdute e che con quella fastidiosa etichetta di perdente che, se potesse, strapperebbe via con le sue stesse mani: «Lasciare questi legami così forti non è facile — ha detto ieri coi lucciconi agli occhi — Me ne vado perché dopo un percorso grandioso, se non riesci ad andare oltre è giusto cambiare. Avrei solo voluto vincere la coppa, la decisione l’avevamo presa da tempo».
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