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La Nazione
Stefano Cecchi, sulle pagine della Nazione, commenta le prestazioni di Arthur alla Fiorentina. Ecco il suo pensiero:
E oggi Arthur Melo, per come gioca, più che un brasiliano lo diresti un ingegnere tedesco. Uno che razionalizza dove gli altri fantasizzano, che cuce dove gli altri dilagano, che riflette dove tutto sembra istinto. Caratteristiche messe in mostra fin da subito, nella prima squadra brasiliana importante che lo notò e lo volle nelle proprie fila. Aveva 14 anni Arthur quando dal Gojas si trasferì al Gremio a 2.000 km da casa, ma anche nel caos caldo di Porto Alegre segnato dalle giocate pirotecniche di Ronaldinho e di Renato Portaluppi, lui non cambiò il suo modo di pensare calcio. E in fondo questo voleva da lui l’allenatore Scolari, con il quale da titolare fisso vinse la Libertadores del 2017. Non fu insomma spropositato se al suo arrivo in Europa al super Barcellona, gli aggettivi si sprecarono. «Arriva il fondamentalista del passaggio», scrisse «El Pais» paragonandolo prima a Iniesta e poi a Thiago Alcantara. E in questo sbagliando. Perché se un accostamento si poteva fare, questo era con Xavi Hernandez, piccolo genio catalano della regia. Si, Arthur somiglia a Xavi per molte cose: la muscolatura forte delle gambe, il baricentro basso, il controllo di palla orientato e poi quella serie rapida e infinita di finte a protezione del pallone che in Spagna chiamano «pelopina». Con la maglia numero 8 sulle spalle, in Catalogna non fece male, vincendo campionato e supercoppa. Il resto è storia più nota.
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