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Gazzetta dello Sport

E.Moretti: “Dissi alla Fiorentina di voler smettere. Poi Baresi cambiò tutto”

Moretti
Torino, ma anche un passato a tinte viola: Emiliano Moretti si racconta alla Gazzetta dello Sport
Redazione VN

Emiliano Moretti ha collezionato 601 presenze da professionista, ha vinto, lottato, e si è pure arreso. Ma poi è ripartito. La sua non è solo una carriera: è una seconda vita calcistica. E, oggi che lavora nell’area tecnica del Torino, accanto alla moglie Carolina, psicologa, ai figli Matias – fresco campione d’Italia con il Toro Under 17 – e Aurora, promessa del nuoto nei 200 dorso, può raccontarla con la lucidità di chi l’ha vista sfuggire, per poi riconquistarla.

Tutto comincia alla Pantheon Travel di Roma, sotto la guida di Vincenzo D’Amico, idolo di papà Luigi, tifoso laziale. Poi la Lodigiani, la Serie C a 17 anni, lo scudetto Berretti, fino al salto alla Fiorentina nel gennaio 2000. “Mi stavo allenando alla Borghesiana, mi chiamano: ‘Dacci una risposta’. Prendo lo scooter e corro a parlarne con i miei. Accetto subito. Vado in ritiro con la Primavera a Viareggio”.

Ma il sogno si trasforma presto in un incubo. “Dopo Viareggio mi faccio una distorsione alla caviglia. Ma il vero problema non era fisico. Stavo male. Faticavo ad adattarmi a una vita nuova, lontano da casa, senza più le mie certezze. Non ne parlavo con nessuno, pensavo di potercela fare da solo. Ma il disagio cresceva”.

Il punto di rottura arriva all’improvviso. “Una mattina chiamo papà: ‘Prendo il treno e torno a Roma’. Lascio tutto. Ai miei dico: ‘Smetto con il calcio’. Loro erano preoccupati, cercavano di capirmi, ma più mi stavano addosso, più mi dava fastidio. Era finita. Avevo avuto un’occasione, e l’avevo lasciata andare”.

Il piano B sembrava già scritto: “Avevo studiato arti grafiche, mio nonno e mio padre erano tipografi. Comincio a lavorare in tipografia, e mi piaceva. La Fiorentina fu molto rispettosa, si chiesero anche se avessero sbagliato qualcosa. Ma per me era tutto normale. Mai una partita, mai un allenamento. Era la mia nuova routine”.

Poi, il colpo di scena. “Stavo alla macchina da stampa, papà mi chiama: ‘Vieni in ufficio’. Aveva ricevuto una telefonata da una certa persona, contattata, diceva, da Franco Baresi. Proprio lui. Voleva sapere che fine avesse fatto Moretti. Mi è arrivata una botta allo stomaco. Ho detto solo ‘Grazie’, e sono tornato al lavoro. Ma dentro ero già cambiato. Mi chiedevo: ‘Che ci faccio io qui?’. In un attimo ho fatto tabula rasa della crisi. Era la mia svolta, con la S maiuscola”.

C’era solo da riprendersi la Fiorentina. “Li ho dovuti chiamare. Dopo tre-quattro mesi, ovviamente, si erano fatti una ragione della mia scelta. Ma io avevo capito di volerci riprovare. Mi sono scusato, ho spiegato tutto. E sono tornato. Sei mesi dopo ero in ritiro con la prima squadra. Ho avuto pure una frattura scomposta al perone, ma l’ho vissuta con un’altra testa. Poi abbiamo vinto la Coppa Italia. E se sono diventato un buon calciatore, lo devo anche a quell’evoluzione come persona”.

Nel suo percorso ha incrociato molti grandi tecnici: “In viola Terim e poi Mancini, alla Juve Lippi, a Bologna Mazzone. A Valencia ho avuto Ranieri, lì è nato Matias. Gasperini al Genoa, Ventura, Mazzarri e Mihajlovic al Toro. E Conte in Nazionale. Ognuno mi ha lasciato qualcosa, e li ringrazio tutti”.

L’addio al calcio giocato è arrivato con la stessa lucidità. “Il Toro mi offrì un altro anno, ma facevo fatica a rendere secondo i miei standard. Avevo 38 anni, e ho detto basta. Sentivo l’affetto dei tifosi, quei cori me li porterò dentro per sempre. E grazie al presidente Cairo ho cominciato un’altra avventura, da dirigente”.

E se oggi racconta tutto questo, è anche perché quella telefonata, vera o no, ha cambiato tutto. “Magari, se qualcuno legge la mia storia, può servire a qualcuno. Chissà…”.