Caso rientrato
—Dico al presidente che non avrei più giocato: eravamo campioni in carica e in corsa per il bis, pensavo di meritare la conferma. Torno a casa e racconto tutto a mia moglie, compresa la decisione di non disputare gli ultimi tre incontri. Sono lei e Boniperti a farmi ragionare, a convincermi. Mi fanno capire che l’uomo è più importante del calciatore, che chiudere con un altro scudetto mi avrebbe regalato una gioia immensa: una soddisfazione così forte che mi sarebbe rimasta dentro per tutta la vita. Avevano ragione. Il giorno dopo comunico a Trapattoni la mia disponibilità e lui risponde che mi farà giocare ma preferisce che io non tiri eventuali rigori. A me va bene, anche perché la responsabilità sarebbe grande. Nella partita seguente ci sarebbe stato il rientro di Paolo Rossi dopo la lunga squalifica e anche altri compagni avrebbero potuto calciare dal dischetto”.
Come andò
—Tutto molto naturale. Marocchino crossa, Rossi prende il palo di testa, Fanna tira, un difensore (Celestini, ndr) salva sulla linea con la mano e la palla, mentre l’arbitro fischia il rigore, rimbalzando arriva direttamente nelle mie mani. L’assist del destino. Fanna esulta, Tardelli e Scirea lo abbracciano, Rossi viene verso di me e mi fa l’occhiolino. Io devo solo battere. Un avversario (Braglia, ndr) fa un paio di buche nel terreno attorno al dischetto, ma non mi disturba: penso solo a segnare. Quel gol regala alla Juve il 20° scudetto.
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