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Le finali, il cammino, e una splendida utopia

Matteo Magrini l'imbucata
Matteo Magrini commenta la seconda finale di Conference conquistata. Tra utopie e analisi della vittoria, non solo come trofei in bacheca
Matteo Magrini

Se c'è una cosa che non sopporto è la retorica del “grazie lo stesso” o del “comunque vada sarà un successo”. Frasi o stati d'animo che significano poco, se non nulla, in un mondo come quello del calcio o più in generale dello sport dove alla fine, piaccia o no, contano solo e soltanto i risultati. E' proprio questo il punto però. Gira tutto attorno a quella parola: risultati. Cosa s'intende per risultato positivo? Cosa vuol dire vincere? Valgono solo titoli e trofei o bisognerebbe ampliare un po' il concetto?

 

La risposta a queste domande non è semplice, e mi rendo conto benissimo che parlare di vittoria senza aver messo nulla in bacheca rischia di suonare ridicolo. Perché in fondo si “gioca” per quello e riuscire ad essere soddisfatti anche quando si resta a mani vuote non è semplice. Tutt'altro. E così veniamo alla Fiorentina. Sia chiaro: tutti ci auguriamo che stavolta la finale di Conference League finisca diversamente rispetto a quella dell'anno scorso a Praga. Se lo meritano tutti: la città, prima di tutto, e poi l'allenatore, il suo staff, la squadra, i dirigenti...tutti. Detto questo, sarebbe un errore enorme ridurre la valutazione di questi tre anni al risultato (si torna sempre lì) del prossimo 29 maggio.


 

Certo, servono mente lucida e capacità di analisi, oggettività e capacità di andare oltre. Eppure, non credo sia così difficile capire che il percorso di queste stagioni sia stato, di per sé, un successo. Soprattutto per chi ha lavorato sul campo. Italiano in testa. Può piacere o no, può star antipatico o meno, ma davvero si possono aver dubbi sul suo lavoro? Davvero, è possibile non vedere quello che ha costruito? Davvero, la mentalità, il coraggio, l'identità e l'organizzazione che ha dato alla squadra non rappresentano una “vittoria”? Prendete la gara dell'altra sera. Non sarà valsa un trofeo, ma credo che vedere la propria squadra giocare così in trasferta e dopo essersi trovata in svantaggio debba rappresentare motivo di gioia e orgoglio. Per tutti quelli che amano la Fiorentina.

 

A proposito. Se qualcuno avesse avuto ancora dei dubbi su quale sia la “parte giusta” nell'ormai stucchevole dibattito sul gioco troppo offensivo la partita col Bruges dovrebbe averli spazzati via. Per una ventina di minuti i viola son stati timidi, impauriti, conservatori. Il risultato? Svantaggio e sensazione di essere in balìa dell'avversario. Quando invece la squadra ha ritrovato se stessa, ha tirato fuori il coraggio, ha alzato il baricentro e ha iniziato a correre in avanti non c'è stato più match. E' un atteggiamento che comporta dei rischi? Sicuramente si. Ma tra il pericolo di perdere ma la certezza di poter vincere e la sicurezza di uscirne con le ossa rotta (perché continuando a difendersi sarebbe finita così) sceglierò sempre la prima via. E' l'unica strada per “vincere”. Certo che no. Semplicemente, è quella migliore per questa squadra e, in generale, quella che a mio avviso meglio si “sposa” con Firenze. Quando mai nella sua storia, questa città ha avuto paura di mettersi faccia al vento? Quando mai, ha rinunciato ad osare?

 

Per questo, a prescindere da come si chiuderà questa stagione, quanto fatto in questi tre anni rappresenta uno straordinario patrimonio e una preziosissima lezione. Il patrimonio è la cultura calcistica impiantata nel gruppo, l'identità, le conoscenze. La lezione è la stessa che lasciarono in eredità Prandelli e Montella prima di Italiano: se si coltiva il bello, e si lavora nella continuità, si possono costruire cicli “vincenti”. A prescindere dai titoli e trofei. Pensateci. Pensate a quanto sarebbe bello fare del Viola Park (struttura ideale da questo punto di vista) la culla di un tante e troppe volte decantato “modello”. Una “casa” dove educare ad un certo tipo di calcio fin dai primi calci al pallone, facendo della prima squadra e del suo allenatore il faro da seguire. Sarebbe bellissimo veder costruire qualcosa del genere e siamo sicuri che alla gente piacerebbe da morire e che per questo sarebbe anche disposta a “sacrificare” qualche risultato nell'immediato.

 

In fondo, è un po' come nella politica. Un mondo dove si vendono promesse usa e getta, buone sole per cavalcare l'umore delle persone e per stuzzicarne la pancia. Gli statisti invece (quelli veri, non quelli avocati da improbabili generali) son quelli che sanno indicare a un popolo un orizzonte lontano, educandolo e guidandolo, non seguendolo. Che bellezza se Firenze e la Fiorentina facessero tesoro di quanto seminato in questi anni, e ci investissero sopra. Utopia? Molto probabilmente si. Eppure, come diceva Galeano, “l'utopia è come l'orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. L'orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l'utopia? A questo: serve per continuare a camminare.”

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