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Kean, De Gea e Palladino. Questa Fiorentina ricorda quella del Trap

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L'editoriale di Matteo Magrini dopo la vittoria della Fiorentina di Palladino contro il Verona di Zanetti
Matteo Magrini

“Se non segna almeno 15 gol vuol dire che io di calcio non capisco nulla e che come allenatore non valgo un...”. E' stato con queste parole (più o meno, ma non crediamo di sbagliarle di molto) che in estate Raffaele Palladino ha chiarito una volta per tutte quale fosse il centravanti ideale per la sua Fiorentina. Parlava di Moise Kean, ovviamente, e i fatti gli stanno dando ampiamente ragione. Del resto, e l'ha detto lui stesso ieri pomeriggio, il mister lo voleva già al Monza e come lui, nel gennaio scorso, lo voleva Vincenzo Italiano. Non solo. Quando l'affare è andato in porto infatti, a chi gliene chiedeva conto, Massimiliano Allegri rispondeva sicuro. “A Firenze fa 15 gol”. Tre indizi (pesanti) che valgono una prova: stiamo parlando di un grande attaccante.

Certo, dirlo adesso è facile. Eppure non ci voleva moltissimo a capire che a prescindere da quello che sarebbe stato il rendimento i viola si erano assicurati il miglior numero 9 dai tempi di Dusan Vlahovic. Con due anni e mezzo di ritardo insomma, e non è questo il momento di mettersi a discutere su quali fossero le sue responsabilità prima di questo mercato, Daniele Pradè ha rimediato al “grande peccato” ammesso nella famosa conferenza stampa che chiuse la scorsa stagione. Sia chiaro, e sarebbe ipocrita ora far finta che non fosse così, l'acquisto di Kean era una scommessa. Perché veniva da un'annata complicatissima, con tanti problemi fisici e nessun gol, e perché anche dal punto di vista caratteriale le incognite non mancavano. Niente di male, né di strano, perché (piaccia o no) oggi come oggi (e sperando che le prospettive possano cambiare al più presto) la Fiorentina non può puntare ad altro. Mi spiego. Di centravanti veramente forti ce ne sono pochissimi in giro e nessuno (e sottolineo nessuno) di questi, se si parla di certezze, che possa esser preso dal club viola.


Restavano due possibilità: cercare un colpo all'estero (per quanto ne sappiamo la soluzione sarebbe stata Dallinga), scommettere su un giovane (Lucca?) o provare a rilanciare un grandissimo talento. Pradè ha scelto quest'ultima strada, anche grazie alla precisa richiesta di Palladino, e ha vinto. L'importante adesso è continuare a maneggiarlo con cura, coccolarlo, magari proporgli subito un nuovo contratto (con adeguamento verso l'alto di ingaggio e clausola....) e, nel frattempo, cercare un centravanti di riserva che non gli faccia troppa concorrenza ma che, quando servirà, non ne faccia sentire troppo la mancanza. Missione difficile, ne siamo consapevoli, ma non impossibile.

Intanto, non resta che godersi questa squadra e, soprattutto, questa sosta di novembre ad altissima quota. Senza volersi illudere, ma lasciando ai tifosi il più che legittimo diritto di sognare e con un paragone che ci stuzzica la mente. Quello con un'altra Fiorentina che fu capace di issarsi fino in vetta e che, come questa, si poggiava soprattutto su due pilastri: portiere e centravanti. Stiamo parlando della Fiorentina 1998/1999. Quella che, con un Batistuta da urlo e prima del suo maledetto infortunio, vinse il “titolo” di campione d'inverno. Certo, nel complesso quella era una squadra più forte. Aveva (anche) gente come Rui Costa ed Edmundo, o difensori come Torricelli ed Heinrich. Tantissima roba. Eppure, oltre al grande numero 1 e al grande bomber, c'è anche il modo di stare in campo tra gli aspetti in comune. Una grande attenzione difensiva, pochi fronzoli e un bomber capace (con pochi palloni) di risolvere le partite. E magari a Palladino il parallelo con Trapattoni non piacerà (il mister di oggi ha una visione sicuramente più moderna del calcio) ma non c'è niente di male (anzi) nel riconoscere come la qualità principale di questo allenatore si stia rivelando il pragmatismo: ha capito che aveva in mano individualità importanti, e su queste ha costruito l'identità.

Una Fiorentina che vince grazie ai giocatori, più che grazie al gioco. Senza che (come detto) questa voglia dire sminuire il lavoro dell'allenatore. Al contrario: ha fatto scelte coraggiose, ha rivisto le proprie convinzioni iniziali, e si è messo “al servizio” del materiale che ha a disposizione. Si chiama “intelligenza” e, nel calcio come nella vita di tutti i giorni, di persone così se ne trovano sempre meno.

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