stampa

Un calciatore indagato: «Nessuno può salvarsi dall’omessa denuncia»

Un giocatore che ha collaborato con gli inquirenti nelle indagini sul calcioscommesse butta lì uno sfogo che è anche una provocazione: «Fermiamo il calcio sei mesi perché non c’è uno …

Redazione VN

Un giocatore che ha collaborato con gli inquirenti nelle indagini sul calcioscommesse butta lì uno sfogo che è anche una provocazione: «Fermiamo il calcio sei mesi perché non c'è uno tra i miei colleghi che possa non essere accusato di omessa denuncia. Quindi condannateci tutti. Basta una voce nello spogliatoio, una frase riferita per essere punibili. E più hai un ruolo di leader più rischi, perché raccogli confidenze, o perché chiunque voglia combinare qualcosa sa che deve venire da te. Tu magari lo cacci, ma sei già colpevole».

Eccolo qua lo spettro che si aggira per la serie A e fa dormire preoccupati i calciatori o i dirigenti indagati nelle inchieste di Cremona, Napoli e Bari sul calcioscommesse: l'omessa denuncia. Salvo per i casi conclamati di illecito, è questa la colpa che viene più spesso contestata: essere venuti a conoscenza di una combine e non aver trovato la forza, o il coraggio, di rompere il patto dello spogliatoio e denunciare. I calciatori sostengono di essere l'anello debole. Gli investigatori invece parlano di omertà: sottolineano spesso le complicità con cui si sono scontrati quando hanno posto domande su partite truccate. Per il presidente dell'Uefa Michel Platini inasprire le pene per l'omessa denuncia è l'unica via per combattere le scommesse.

Però questo è anche un territorio grigio. Un fattorino come Angelo Iacovelli che racconta storie nate nello spogliatoio del Bari va preso sul serio e denunciato? La storia ci racconta di sì, sarebbe stato meglio. Ma, per esempio, fin dove ha senso il «non poteva non sapere»? Nel caso di Antonio Conte a Siena si è ritenuto che se il vice sapeva, doveva sapere anche il capo.

Il mondo del calcio si interroga. Una premessa è d'obbligo: la giustizia sportiva è una giustizia domestica, ed è molto più severa di quella comune. «Lo sport è ancorato a un codice etico e deontologico — il parere di Piero Sandulli, il presidente della Corte federale —, gli sportivi sono chiamati a un comportamento specchiato. Si sa che le norme sono queste. Poi, come per la responsabilità oggettiva, può essere che ci sia un'evoluzione alle nuove esigenze. Ogni pronuncia è una crescita».

Negli ultimi processi sportivi, c'è chi ha intravisto però una stortura: cioè che l'omessa denuncia sia diventata lo strumento di condanna quando non c'è la prova di un illecito. Leandro Cantamessa, avvocato del Milan, la toglierebbe dal codice: «Primo perché è nata quando gli strumenti istruttori della giustizia sportiva erano minimi: non esisteva la norma che consentiva di accedere, per esempio, alle intercettazioni dei procedimenti penali. Oggi, invece, gli strumenti ci sono. Secondo perché è la trasposizione della norma penale che obbliga i pubblici ufficiali a denunciare un reato e mi pare forzato trasferirla ad atleti. E infine c'è una terza motivazione che riguarda il disvalore sociale che si dà alla spia, a chi rompe la coesione di un gruppo». Però così si incoraggia l'omertà e la connivenza. «Vero, quindi credo che una soluzione di buon senso sia ridurre le pene, o almeno lasciare al giudice la libertà di entrare nella questione e capire caso per caso la gravità delle responsabilità personali: non ha senso ci sia un minimo obbligatorio di pena». Se ne riparlerà.

Corriere della Sera