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Sousa-Sarri, il dandy e il partigiano

L'articolo di Benedetto Ferrara sui due tecnici

Redazione VN

Uno è un salutista talebano, e mangia verdura e poco altro. L’altro è tabagista convinto, e fuma 80 sigarette al giorno con l’aria di chi non ha nessuna intenzione di smettere e nemmeno di provarci. Mondi lontani, quelli di Paulo e Maurizio, ma non tanto come sembra guardandoli in faccia o ascoltandoli parlare. E’ più la forma e l’abito (o la tuta) a fare la differenza. La sostanza è simile: pignoli, testardi, organizzatori maniacali. E a modo loro entrambi hanno fatto una bella gavetta. Sarri però a pallone non ha mai giocato. O meglio, non tanto da andare in tv, e nemmeno alla radio, forse solo su qualche foglio parrocchiale. Un dilettante duro e puro che però sui campi sconnessi ha imparato a capire i segreti di cui aveva bisogno per realizzare il suo unico obiettivo: insegnare calcio. Da lì è cominciata la strada che lo ha portato molto più in là di quanto immaginasse: dalla panchina dello Stia alla Serie A in quattordici anni, migliaia di sigarette e una vita dissociata tra campo e ufficio.

Perché Maurizio Sarri era un dirigente bancario che amava il suo doppio lavoro, finché ce l’ha fatta, perché a un certo punto ha dovuto imporsi di scegliere. E così lui gira ovunque, in tutti i luoghi e pure in tutti i laghi, visto che passa anche da Cavriglia. In tutto diciotto squadre, Napoli compreso. In Serie A ci arriva con l’Empoli. Roba di casa, per uno che abita a Figline. Poi il Napoli, dopo una trattativa col Milan, che però non si fida del comunista nipote di partigiano, tra l’altro decorato dagli States per aver salvato due piloti che rischiavano di finire nelle mani dei tedeschi. Invece De Laurentiis se ne frega dell’immagine, delle battute da casa del popolo e delle sigarette. Ha visto che Sarri è bravo, anzi di più, e si fida. Tanto da dire «resta qui almeno altri cinque anni». Chissà.

Ma anche Sousa ha fatto la sua gavetta. Cioè: tra lo Stia e il Queens Park Rangers un po’ di differenza c’è, anche perchè solo da pronunciare fa più figo allenare la squadra di Briatore, che comunque lo caccia a metà stagione. Ma per Paulo conta fare esperienza, così come aveva fatto con le giovanili della nazionale portoghese, dove ha iniziato a respirare l’odore dell’erba dalla panchina.

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