David Pizarro si racconta. Lo fa a La Gazzetta dello Sport. Ecco un estratto dell'intervista che potete trovare all'interno del quotidiano in edicola.
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Pizarro: “Voglio restare e giocare un altro anno”
“A Firenze auguro di stare sempre in alta e che Babacar cresca. ADV? Somiglia a Moratti per la passione…”
Ricorda il primo giorno in Italia? "Come potrei dimenticarlo. Arrivai a Udine con sei valigie e mia moglie Carolina. Avevo la febbre a 40. Sudavo. Piangevo un giorno sì e un giorno no. I primi due anni sono stati duri, per un periodo tornai anche in Cile, poi mi sono legato al Friuli. Francesco Fierro, pizzaiolo, è ancora uno dei miei più cari amici".
Pizarro, perché è ancora in Italia?
«Noi cileni e voi siamo simili. Mi sono innamorato di questo paese, ci passo anche le vacanze d’estate. Vado in Sardegna perché le spiagge sono fantastiche. Ma vado pure a Bibione».
Però niente vacanze a 5 stelle, niente Costa Smeralda...
«Ma no. Sono uno che fa ancora la coda alla poste per pagare le bollette. E non sono social. I miei amici sono un meccanico, un pizzaiolo, gente così. Sono figlio di un pescatore. La mia estrazione è quella, vengo dal mondo sacrificato».
Passiamo al calcio: com’era quello in cui è arrivato e com’è quello in cui gioca?
«Prima c’erano i fuoriclasse, un pareggio fuori casa valeva una vittoria. I giovani davano del lei a quelli della prima squadra Ora è diverso, ti sgridano loro. Poi in campo c’è più velocità ».
Chi sono i fuoriclasse di questi 15 anni vissuti in Italia?
«Figo. Che personalità. Se perdeva la palla 10 volte la voleva altre 10. Poi Veron, Zanetti, Totti. E voglio aggiungere Tourè del Manchester City, quei sei mesi lì sono stati importanti».
E tra gli allenatori?
«Devo tanto a Spalletti che ho avuto a Udine e mi ha fatto realizzare il sogno di andare a Roma e alla Roma. Ma non dimentico Hodgson: mi inventò regista davanti alla difesa, e io ero un trequartista».
Cosa ha significato giocare con Zanetti, che prima di smettere la precedeva nella classifica degli stranieri più «italiani»?
«Javier è una bandiera. Uno trasparente, alla mano. Ma devo ricordare anche Massimo Moratti, che usava sempre la carota e che paragono ad Andrea Della Valle per come si affeziona ai giocatori. E poi Facchetti, un mito. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, di averlo accanto e sono sicuro che mi ha voluto bene».
Passiamo alle quattro città in cui ha giocato: Udine, Milano, Roma, Firenze. Il meglio.
«Devo ammettere che sono stato fortunato: quattro città belle e importanti. Il ricordo di Udine è la festa del prosciutto di San Daniele e le gite a Venezia quando ero libero. Milano è una città in cui sei uno qualunque, non ti assillano. La casa l’avevo a Como, ma a Milano venivo spesso. Roma era il mio sogno. Ho comprato casa all’Axa, faccio investimenti immobiliari. La adoro. Mangerei sempre la carbonara. E non posso dimenticare Totti e suo papà, che ci portava la focaccia con la mortadella e la coppietta di carne. Suo papà è un numero uno. A Roma, nei momenti di difficoltà, andavo al Pantheon da solo per ore a pensare. Mi è sfuggito solo lo scudetto. Che rabbia quella partita con la Samp nel 2010. Certo, è una città caotica, c’è il potere, la chiesa. Ho un gran ricordo di Papa Giovanni Paolo II. Ai cortei e ai fumogeni ero abituato dal Cile. Firenze è l’arte. Mi sono goduto la mostra di Picasso. Si può camminare nel centro che è stupendo».
Cosa augura a Firenze?
«Di lottare sempre dal quarto posto in su. Uno stadio nuovo. La crescita di Babacar che martello un po’. Io devo tanto a Montella con lui ho giocato. Mi ha dato una grande possibilità. Vorrei restare. ma sa che le dico? Tornerei pure a Udine. L’importante è giocare ancora un po’. Amo troppo la palla»..
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