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Pesaola: Di Stefano, le valigie e la gavetta nel River

Era arrivato a Bologna nell’anno settantadue e di nascosto e si era acquattato all’Hotel Jolly perché attendeva che il novello Presidente Luciano Conti trovasse il modo di liquidare l’allenatore Oronzo …

Redazione VN

Era arrivato a Bologna nell’anno settantadue e di nascosto e si era acquattato all’Hotel Jolly perché attendeva che il novello Presidente Luciano Conti trovasse il modo di liquidare l’allenatore Oronzo Pugliese che in forza e con tanto di contratto in essere continuava a officiare sul campo e si rifiutava di togliere il disturbo. Ma con una ricca buonuscita il pres convinse il riottoso Don Oronzo a levarsi dai piedi e dunque a fine luglio Bruno Pesaola - che qualche anno prima aveva vinto a Firenze e alla corte di Nello Baglini un insperato scudetto - cominciò a lavorare per i nuovi colori e sempre assistito dal fido assistente Cervellati che già era stato il vice di Bernardini nei tempi luminosi del settimo scudetto e da quei giorni il Bologna prese a rianimarsi e per noi cronisti del tempo cominciarono le squisite goduria perché stare accanto tutti i giorni al Petisso (il Piccolo, detto all’argentina) ti divertiva e ti arricchiva. E si andava a giocare in Europa perché si arrivava spesso fra le prime sei o sette e perché - magari anche un po’ rubacchiando - a metà degli anni settanta il Bologna vinse pure la seconda Coppa Italia della sua storia centenaria e si poteva pensare in quei giorni a un Bologna che potesse prescindere da un personaggio così a tutto tondo e che adorava la città di Napoli e che per due volte abbandonò Bologna appunto per i fumi del Vesuvio, ma che evidentemente poi non sapeva resistere al richiamo di quei poker selvaggi consumati nel ritiro dello Chalet delle Rose e alla vigilia di partite importanti, vigilie vissute fra mille volute del fumo di Bruno e del suo Residente e del diesse Montanari e del gran nume della Virtus Basket, Gigi Porelli. E quelle conferenze del lunedì mattina alle ore dodici precise (il Petisso si alzava sempre tardi) e consumate in un bar di Via Marconi e animate da frizzi e lazzi che ci godevamo prima di stendere servizi facili facili perché tutto sommato il vero giornalista era lui. E le sue battute fulminanti tipo quando alla vigilia di un match annunciò che il Bologna avrebbe fatto una partita d’attacco e poi sul campo il Bologna non passo mai la metà campo e lui se a cavo brillantemente dicendo: «Embè, mi hanno rubato l’idea».

Sapeva leggere la partita come pochi e il mestiere l’aveva imparato quando aveva sedici anni e giocava con il River Plate e lui portava la valigia a quei campionissimi che erano Pedernera, Labruna e il ventenne Alfredo Di Stefano. Poi era arrivato giovanissimo alla Roma e presto dirottato al Novara (e là conobbe e poi sposò la bella Miss Novara) e quindi approdò al Napoli di Achille Lauro. Lì prima giocando in regia e poi allenando con grande profitto e quindi spostandosi a Firenze e appunto vincendo alla grande e lanciando in orbita giocatori inediti come il portiere Superchi e il battitore Ferrante e anche il funambolico Luciano Chiarugi e il concretissimo Rizzo detto Fru Fru e il redivivo Maraschi, già fallito a Bologna e brillantemente risorto con Petisso. Ma quasi subito si trasferì a Sanremo e si invento un mestiere finto di floricoltore, lui che non sapeva distinguere un giglio da una viola del pensiero. E la chiamata del Bologna e altri anni corposi prima di un rientro definitivo a Napoli per gli ultimi fuochi e un finale quasi fra le quinte quando si mise ad allenare il Campania. Una delle ultime gag bolognesi e bologniste la regalo a noi giovani che spesso prendevamo dalle sue labbra quando gli chiedemmo se dopo una bruciante sconfitta contro la Juve lui certe scelte molto opinabili le avrebbe ragionevolmente rifatte. E lui - sfumacchiando come un esercito di turchi- disse semplicemente: «No di certo perché quelle scelte purtroppo le ho già fatte».

A Napoli e in tarda età faceva l’opinionista ed era ancora così ascoltato e riverito. E la sera guai se non andava a farsi una magnata. Ma l’adorata moglie Ornella se ne era andata da questo mondo e il figlio Diego - eccellente uomo di lettere e di teatro - deambulava ormai per ogni dove. E poi le gambe del Petisso non reggevano più. Quando Eraldo Pecci e Franco Colomba, i due giocatori che lui aveva fatto debuttare - lo andarono a trovare, si accorsero che stava in carrozzina e che era costretto a vivere in mesta solitudine «ma la testa e ancora di una lucidità impressionante» mi raccontò poi Colomba al ritorno di quella struggente visita quasi alla memoria. Per quel che mi riguarda è morto uno dei migliori allenatori del Bologna di sempre e vi prego di considerare che da oltre sessant’anni gli allenatori del Bologna li ho sempre seguiti sul campo e anche nei piccoli simposi che si usavano una volta.

Gianfranco Civolani - Il Corriere dello Sport/Stadio