Un po’ Mourinho, un po’ Papa Francesco. Un po’ accentratore (di flash, sguardi, attenzioni), un po’ pastore delle anime viola che, va detto, tra l’addio di Montella, la querelle Salah e il totale immobilismo sul mercato, sono arrivati a Moena quantomeno un po’ disorientati. E allora ci ha pensato lui, Paulo il portoghese, il cui passato bianconero per fortuna è durato il tempo di un coro e di qualche saltello in piazza Santo Spirito, un «lavaggio» rapido e indolore insomma, altro che sciacquare i panni juventini in Arno come avvenuto (metaforicamente s’intende) in passato ad altri illustri protagonisti.
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Mister Sousa? Allena anche i tifosi
Il portoghese si è preso sulle spalle le ansie di una città intera. L’articolo del Corriere Fiorentino
No, con Sousa, il feeling è scoppiato subito. Un po’ perché l’uomo ispira simpatia ed empatia, appare serio, determinato e conscio del proprio compito, un po’ perché in fondo in questo momento non proprio eccezionale non è che ci fosse molto altro a cui aggrapparsi. E allora in poco più di sette giorni Paulo si è preso sulle spalle l’ansia di una piazza intera, trasformandosi in guida da seguire senza fare troppe domande con il rischio di incappare in qualche risposta scivolosa. E magari pure velenosa come quelle che invece avevano usurato il rapporto tra il suo predecessore, Montella, e la Fiorentina.
Questione di caratteri probabilmente, con il napoletano che ha finito per pagare (nel momento del bisogno) quel distacco professionale che ha sempre voluto mantenere con la piazza. Una scelta coerente fino alla fine, quella dell’Aeroplanino, convinto che un allenatore debba soprattutto parlare con i fatti e con il campo e che il rapporto strettissimo lo debba avere soprattutto con i propri giocatori, da difendere sempre e comunque «anche a costo di andare contro una piazza intera» (come disse dopo la sconfitta contro il Siviglia).
Paulo Sousa invece è partito con un altro passo, convinto che avere dalla propria parte l’entusiasmo di una tifoseria alla fine possa portare qualche punto in più anche sul campo. Certo, ma poi servono anche i giocatori, quelli in grado di fare la differenza e di risolvere le partite con le giocate. Lo sanno bene altri due predecessori del portoghese in viola.
Come Sinisa Mihajlovic, il cui atteggiamento da sergente di ferro finì per diventare quasi una prigione, costretto, il serbo, a mantenere il piglio dell’allenatore tutto muscoli e grinta con una squadra invece già sul viale del tramonto, sia calcistico che emotivo.
Ma lo sa bene anche Delio Rossi, accolto a Firenze con un entusiasmo che un po’ ricorda quello che ora sta travolgendo Paulo Sousa, ma ben presto dimostratosi incapace di governare una nave alla deriva. Lui, il mister con i modi alla Don Camillo, dello schiaffone a Ljajic, pagato a caro prezzo nonostante il partito dei suoi estimatori, quelli del «Deli(ri)o Rossi», siano rimasti a lungo anche dopo il suo addio. Già, perché in fondo, con la città, con la cosidetta «piazza viola», Rossi si era sempre dimostrato riconoscente e rispettoso. Tanto da riaprire qualche allenamento ai tifosi (a Firenze la questione ha assunto negli ultimi anni un’importanza particolare, quasi vitale), oltre a non dimenticare mai qualche immancabile frase ad affetto: «Lavorerò perché la squadra si immedesimi nella sua gente e la gente nella squadra».
Mihajlovic, Rossi, Montella. E se Sousa fosse un po’ una grande sintesi del recente passato viola? Chissà, di sicuro in questo cocktail sembra aver fatto capolino anche Cesare Prandelli. Con quella capacità di allenare oltre alla squadra anche la tifoseria (e i media) indispensabile nel calcio di oggi. Una pagina fondamentale del manuale del buon allenatore che Sousa ora sta aggiornando. Con social, autografi, sorrisi e immancabili selfie.
Ernesto Poesio - Corriere Fiorentino
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