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L’eredità di Cruijff stravolta, da 50 anni non si inventa nulla

Mario Sconcerti ricostruisce dalle colonne del CorSera l'importanza dell'Olanda di Cruijff nel calcio moderno

Redazione VN

È strano che in tutto quello che è stato scritto su Cruijff sia mancata la domanda principale: perché cerchiamo ancora di giocare come giocava lui, come giocava tutta la sua squadra? Perché è stato inventato nel frattempo così poco, quasi niente? Il pressing alto, l’intercambiabilità dei ruoli, la difesa che costruisce, non vi dice niente? Non è la filastrocca con cui si definisce ancora oggi moderno un tecnico? Rinus Michels, che quel gioco inventò a 38 anni, era stato chiaro: non cercate di imitarci, non è possibile, siamo irripetibili. Ma il fatto che dopo Michels sia arrivato Kovacs quasi con gli stessi risultati ha confuso le idee, si pensò avesse sbagliato Michels, qualcosa di ripetibile c’era. Kovacs era l’opposto di Michels, era largo di vedute, molto meno rigido nelle impostazioni. Al suo primo allenamento Cruyff gli chiese a nome della squadra come voleva si portassero i capelli, se era insomma il tempo di accorciarli. Kovacs chiese al suo assistente di lanciargli un pallone, lo fermò al volo e lo portò sul destro, poi concluse: non sono un parrucchiere, sono un uomo di calcio. Fate quello che volete. Forse Kovacs fu il perfetto seguito del maestro proprio perché ne era lontano, dimenticare tutto per ricordarselo meglio, ma noi di questi ultimi 50 anni, oltre a tagliarci i capelli, cosa abbiamo fatto? Siamo mai andati oltre Cruijff?

In realtà l’Olanda portò soprattutto una necessità, essere grandi atleti. Stabilì un metodo di lavoro. I primi a capirlo furono infatti tedeschi e inglesi, i più vicini alla nuova ortodossia. Per 11 anni vinsero in Europa solo loro, anche con squadre poco conosciute come Liverpool, Aston Villa, Nottingham Forest, Amburgo. Quando si parla di crisi improvvisa del calcio italiano sarebbe utile ricordare che durante quella rivoluzione rimanemmo per 16 anni senza una Coppa dei Campioni, se contiamo l’Heysel, altrimenti le stagioni diventano 20. Non sapevamo imitare, non avevamo il fisico né la mentalità. Ci cambiò Sacchi, che non inventò il calcio, ma un tipo di lavoro e di vita sconosciuto al calciatore in Italia. Eppoi? Altri tecnici italiani, primo fra tutti Lippi, poi Ancelotti, Capello, tutta gente ben ancorata alle origini, solo rivisitate da fanatismo e buon senso.

Ma il messaggio di Cruijff, di Michels, dov’era? Perché tutti a dire che era la cosa migliore ma anche la meno applicabile? È stata l’evidenza della televisione a farci cambiare idea, l’ovvietà di poter finalmente vedere il calcio degli altri in un’epoca in cui non potevamo nemmeno vedere il nostro. È allora, una quindicina di anni fa, che ci siamo inventati le imitazioni olandesi. Il possesso palla per primo, ma alla nostra velocità. Ci avevano provato Viciani, Vinicio, Fascetti, meglio di tutti Liedholm nelle stagioni precedenti, ma la televisione portò una specie di universalità, un nuovo canone obbligatorio per essere moderni: tenere il pallone. Con frasi brevi, passaggi obbligati, ma tenere il pallone. Dimenticando che Michels e Cruijff erano stati chiari: il pallone va passato da un giocatore in movimento a un altro giocatore in movimento. Non fra due giocatori fermi. L’equivoco è arrivato fino a noi. Continuiamo a giudicare il possesso palla indicativo di un dominio quando i risultati dicono che è solo un sintomo. Tanti tengono il pallone e vincono, altrettanti lo tengono e perdono. E allora, che statistica è? Abbiamo cioè cercato di imitare non la velocità con cui l’Olanda faceva girare la palla, ma solo la metà più facile del concetto. E tutto questo 50 anni dopo. Poi ci chiediamo perché siamo in difficoltà.

L’altro equivoco è la corsa. È diventato fondamentale correre più degli altri. Si misurano i chilometri fatti da ciascun giocatore, meno di 11 è un limite per un centrocampista, meno di 110 una disgrazia per una squadra. Anche qui abbiamo scambiato il difficile con il comodo. Corri, dovunque vada, ma corri. Dimenticando che è la palla che deve correre più dell’uomo, non viceversa. E che per farla correre bisogna saperla gestire, bisogna essere bravi, questo è il problema. Fra due che corrono la stessa distanza, nel calcio vince chi gioca meglio a pallone. Noi però misuriamo la distanza. E prendiamo per nuovi maestri quelli che dicono di attaccare alti gli avversari, di costruire il gioco dal basso, quelli che amano i falsi centravanti, le mezze misure. Come l’Olanda 50 anni fa. Come se l’Olanda avesse avuto giocatori davvero di ruolo, come se Cruyff lo fosse mai stato. Se il calcio è anche pensiero, noi siamo tra i Greci e Galileo, duemila anni di niente dedicati a una sola ortodossia, il resto era peccato o inquisizione. Il risultato è stato di rendere detestabile, anzi fuori corso, anche la nostra scuola, l’unica universale come quella di Cruijff.

Mario Sconcerti - Il Corriere della Sera