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I ricordi di Fantappiè: “Da Pandolfini a Baggio quante liti per le cessioni”

TRA QUALCHE MESE, saranno 93, quanti Alfredo Martini, un altro del ’21. «Mi telefona e mi fa: o vecchio! No, gli rispondo, vecchio tussei te che sei di febbraio, io …

Redazione VN

TRA QUALCHE MESE, saranno 93, quanti Alfredo Martini, un altro del ’21. «Mi telefona e mi fa: o vecchio! No, gli rispondo, vecchio tussei te che sei di febbraio, io sono nato a novembre». Rigoletto Fantappiè mantiene la verve di un ragazzino. «Faccio la festa dei miei cento anni allo stadio, cercate di esserci, dico sempre ai miei amici ex calciatori, quando li incontro a Coverciano». Già, ma in quale stadio? «Per me rimane sempre quello del Campo di Marte. Quello laggiù, a Novoli, anche se necessario, a me non dice nulla».

E’ la logica del cuore, più che quella del profitto, che lo ha spinto nella missione Fiorentina. E non servono domande, per descrivere un secolo di amore del fondatore del centro coordinamento viola club, arrivato a fare anche il dirigente, sempre e comunque guidato da una fede sopravvissuta a gioie e delusioni.

«Era il 1926, abitavo sopra Bagno a Ripoli (all’Osteria Nuova, dove abita anche adesso) e lo zio fattore aveva un cavallo con il calesse con cui andammo a Firenze. Lasciò noi bambini a guardare giocare al campo di via Bellini, mentre lui portava il cavallo a mangiare il fieno alle Cascine. C’era la Fiorentina contro le Signe». Le maglie erano ancora biancorosse («l’errore nel lavaggio fu di una ditta di una Empoli») e la neonata Fiorentina arrancò, contro quello che all’epoca era uno squadrone. Finì 2-1 per loro, ma l’amore era sbocciato. «Nel 1936, dopo aver fatto le scuole tecniche, entrai alla Vallecchi di viale dei Mille. Siccome ero vicino allo stadio, diventai l’addetto ai telegrammi del marchese Ridolfi: in cambio di un biglietto per la partita la domenica, portavo le lettere alle poste in via Pellicceria». Con gli amici Mario Fantechi (altra leggenda del tifo) e Lando Parenti (l’ortolano di via Palmieri che diventò magazziniere della società) conquistarono anche il diritto a salire sulla terrazza della torre di Maratona. «E lì, con gli involucri della carta presi in tipografia, facevamo un grande trombone. E scandivamo: vio-la, vio-la, vio-la». Non era ancora scoppiata la guerra e lo stadio si chiamava Berta.

QUANDO anche il calcio ripartì, dopo il conflitto, Rigoletto aveva in tasca la tessera sociale numero 204 e partecipava, con il presidente Befani (quello del primo scudetto), alle assemblee. Pure a quella, tumultuosa, in cui venne decisa la cessione, per 60 milioni, di Egisto Pandolfini alla Roma. «Il giornale la chiamò l’assemblea delle seggiolate perché, quando la decisione fu messa ai voti, chi era contrario alla vendita di Egisto scagliò le sedie impagliate della sede di via dei Saponai contro chi aveva votato a favore». Negli anni successivi, le cessioni dei pezzi più pregiati diventarono indispensabili per i bilanci. Solo che c’era pure da salvare la faccia. Così, quando il Milan voleva Chiarugi, il presidente Melloni s’inventò una scena che sembra uscita da un film di Monicelli. «Mi chiamò e andai a casa sua con Mario Fantechi, che, con il suo bar in piazza Ravenna, era già un padreterno del tifo viola. ’Bisogna vendere Chiarugi perché non sta bene’, ci disse. ’Se non ci credete andate a vedere quella roba arancione che gli dà da bere Pallino Raveggi’». Non era vero nulla, ma il campione viola se ne andò, in cambio dei soldi freschi da mettere in cassetta. «La cena d’addio, Luciano la fece dalla Beppa, in San Frediano. Io gli regalai i volumi della storia di Firenze, Mario il Marzocco».

ALTRA epoca, altre storie. Come quando al ristorante in via Panzani di Vincenzo Sabatini in via Panzani, allora nel consiglio, si presentò Boniperti per chiedere Antognoni. «L’offerta era di due miliardi più Bettega e Verza. Fu indetta immediatamente una riunione. Mario Bitossi, delle ceramiche di Empoli, altro membro del consiglio, mise subito le mani avanti: ’ah, se si vende Antognoni io mi dimetto, perché ci rincorrono’». E Antonio restò. Non ce la fece a trattenere Baggio, però. «Dopo la morte di Baretti, i Pontello avevano messo in società Righetti e Previdi. Io, che conoscevo Mario e la moglie Valeria, stavo lavorando affinchè Cecchi Gori acquistasse la società». In quel caso, Baggio, che con Fantappiè, Diaz e Rocchigiani andava a caccia a Certaldo, poteva essere trattenuto. «Lo portai a cena, a Roma, a casa di Vittorio a Monte Mario. Eravamo io, lui, Mario e Valeria, e Vittorio con la Rita. ’Ne parlo con Caliendo’ (il suo procuratore), disse Roberto a tavola. Ma tornato a casa, capii da Righetti e Previdi che Baggio era già stato promesso alla Juve. ’Se si vende Baggio e Dunga salta Firenze’, dissi ai due dirigenti. Dalla loro risposta capii che era già tutto fatto. La mattina seguente convocai i giornalisti da Rivoire e così nacque la rivoluzione per Baggio. Quando tornò a Firenze da avversario gli dissi: Roberto, che non ti venga in mente di fare un gol. Ma che sei pazzo, mi rispose. E infatti, non tirò il rigore che De Agostini sbagliò».

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