Vi riportiamo un sunto della lunga intervista apparsa oggi su La Repubblica a firma Gianni Mura
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Hamrin: “Il nostro calcio ideale”
L’intervista di Gianni Mura al campione viola (COMMENTA)
Il campo dei ricordi vuol essere uno sguardo sul calcio di ieri attraverso le testimonianze dei protagonisti, ognuno particolarmente legato a un numero di maglia, quando le maglie andavano dall’1 all’11. Non è da intendere come una “top 11”. Nella composizione di questa squadra hanno inciso un paletto temporale (aver smesso di giocare da almeno 25 anni) ma soprattutto la voglia di raccontare e la vivacità dei ricordi.
Perché Hamrin ha indossato per tutta la carriera la maglia numero 7 e non è mai stato espulso.
«E neanche ammonito, mai. Solo una volta ho avuto il 10, contro la Germania, nella sfida decisiva per andare al mondiale del ‘66. Facemmo 1-1 a casa loro e segnai di testa ma poi loro vinsero 2-1 in casa nostra».
A Firenze, dove ha giocato nove campionati e ha messo radici, lo chiamavano Uccellino. Un giornalista della Nazione, Beppe Pegolotti, paragonò la sua corsa al volo di un uccellino, e Uccellino diventò. A Padova, dove giocò una sola stagione, Nereo Rocco lo chiamava Faina. Per gli svedesi è Kurre, da Kurt. È anche il titolo di un libro che abbraccia tutta la sua carriera. Molto ricca di gol: 312 in 515 partite da professionista. Tanti, per un’aletta di 170 centimetri che a Torino avevano chiamato «caviglia di vetro».
Ma è vero che a segnalarlo a Gianni Agnelli fu un minatore italiano che lavorava in Svezia o è una leggenda?
«Ma lei se lo vede un minatore che scrive all’Avvocato? La verità è che alla Juve mi segnalò un dipendente di Fiat Svezia. Nelle sedi all’estero c’era regolarmente qualcuno che andava a vedere le partite e, nel caso, segnalava. Mi risulta che così arrivò anche Sivori. Nel mio caso, la Juve mandò a vedermi l’allenatore Sandro Puppo, in Portogallo. Vinse la Svezia 6-2 e già negli spogliatoi Puppo mi chiese: verresti a Torino? Anche a piedi, gli avrei risposto. Mi pagarono 15mila dollari».
E la caviglia?
«Era una frattura del quinto metatarso. Mi curarono coi fanghi, ad Acqui, e dopo due settimane mi rimandarono in campo. Così, sempre affrettando il recupero, mi feci male quattro volte, ed ero piuttosto demoralizzato. ... Così andai a Padova e Rocco, con un suo amico ortopedico, capì qual era il problema del mio piede destro. Con una soletta andò tutto a posto. Segnai 20 gol in 30 partite, a fine campionato bussa la Fiorentina, che doveva sostituire Julinho».
Che allenatori ricorda volentieri?
«Per Kaufeldt, detto Napoleone, sei volte capocannoniere in Svezia, medaglia di bronzo alle Olimpiadi del ‘24 a Parigi. Fu il primo a scommettere su di me. In Italia, Hidegkuti e Chiappella, e ovviamente Rocco».
Ricordo un suo curioso modo di dribblare,usava il terzino come una sponda elo saltava.
«Cercavo il tunnel, se mi riusciva bene, altrimenti mi liberavo con la carambola se il difensore teneva le gambe chiuse. ... Avevo il mito di Stanley Matthews perché era ala destra, ma Nacka Skoglund, pace all’anima sua, come ala sinistra era un talento vero».
Com’era il vostro calcio, Hamrin?
«Andavamo a 50 all’ora, adesso vanno a 100. Il nostro calcio era più bello e tecnico, questo è più veloce. Noi eravamo più leali, oggi vedo falli terrificanti».
S’è rivisto in qualcuno?
«Più di tutti in Paolo Rossi. All’inizio in Pato, ma si è perso».
Gianni Mura - la Repubblica
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