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Forza Pepito, pallone d’oro del coraggio

Cinque mesi oggi sembrano un’eternità. Eppure, c’è da giurarci, chi ha il cuore viola saprà aspettarlo, conservando lo stesso affetto fragrante di oggi e forse pure di più. Perché i campioni …

Redazione VN

Cinque mesi oggi sembrano un’eternità. Eppure, c’è da giurarci, chi ha il cuore viola saprà aspettarlo, conservando lo stesso affetto fragrante di oggi e forse pure di più. Perché i campioni come Pepito Rossi, che hanno temprato nella sofferenza il loro dedicarsi a una causa calcistica, scaldano ancora di più il cuore a chi di quella causa farà parte per sempre.

Già, la sofferenza. Dicono che non sia grazie al genio ma grazie a questa che smettiamo di essere marionette. Forse anche per ciò Pepito Rossi, che con la sofferenza ha fatto i conti quasi da subito, non è mai stato una marionetta balotellata nel Barnum indecoroso del Pallone, piuttosto un atleta nitido che ha fatto della discrezione, della serietà e del pudore i suoi tratti distintivi. Preferendo allo scintillìo mondano dei riflettori, il pane caldo di una vita semplice da ragazzo-cittadino del mondo. Sembra quasi un racconto di altri tempi. Di Obdulio Varela che da solo ferma l’attacco del Brasile e consegna al suo Uruguay la Rimet in un Maracanà in lutto; Gigi Riva che dice mille volte di no all’avvocato Agnelli per restare nel silenzio periferico della sua Sardegna. Il calcio dall’altra parte del Potere e dei Potenti del momento.

Sì: Pepito Rossi, come Odisseo, Proust, l’Uomo Ragno e Leopardi, appartiene alla categoria dei campioni con dolore. Di quelli che sanno come per arrivare al successo si debba sempre pagare un prezzo fatto di sudore e di sacrificio. Roba che tempra il carattere. Che umanizza.

In fondo, quale sia la pasta di Petito lo si è visto non solo nei momenti magici dei suoi mesi fiorentini. Non solo quando, con una tripletta epica che resterà nella storia di Firenze come il monito di Pier Capponi o le poesie di Lorenzo, affondò la corazzata juventina in un forse irripetibile 4-2; non solo nei colpi da fuoriclasse che hanno risolto più di una partita alla Fiorentina. Piuttosto in un episodio marginale che avvenne giusto un anno fa alla prima di campionato col Catania. Ricordate? Libero davanti al portiere Andujar, che oramai s’era rassegnato al peggio, invece di tirare e fare doppietta regalò la palla a Gomez per lasciare al compagno il privilegio del gol. E poco importa che Marione allora sbatacchiò quella palla sul palo come un Dertycia bavarese: quel gesto raccontò la pasta del campione altruista non accecato dall’ego. Il ragazzo-bomber che pensa al calcio come al coro del Nabucco e non all’urlo del soprano. Il senso dello spogliatoio che va oltre lo stagno di Narciso.

Per questo, caro Pepito, non ti preoccupare. Firenze ha già avuto altri campioni che, come Antognoni, hanno forgiato la loro epica anche attraverso la sofferenza. E in ciò la città ha memoria, separa il grano dal loglio calcistico, riconoscendo per sempre chi ha conquistato il pallone d’oro del coraggio.

Per questo, fossero 5, oppure 7 o anche 12 mesi, quando succederà che risbucherai dal tunnel sotto la Fiesole, ti accorgerai che i cuori viola t’avranno aspettato con un affetto immutato. Dedicandoti quella parte del cuore che si riserva alle cose migliori; la passione, l’amore per le cose pure, la dedizione per ciò che si sente caro. E’ la bellezza, una delle poche, che ancora oggi sa generare il mondo per altri versi spietato del Pallone.

Stefano Cecchi - La Nazione