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Ex-viola: domani è il compleanno di “Ciccio” Graziani

«A 60 anni gioco ancora. Oh, me se litigano per avermi in squadra…»

Redazione VN

tratto da L'Avvenire (articolo di Massimiliano Castellani)

Il calcio di ciccio il gemello del gol che segna ancora

«A 60 anni io gioco ancora con gli amici. Oh, me se litigano per avermi in squadra, perché lo sanno: basta dare la palla a Ciccio che diventa gol».

«Potevo diventare frate ma il mio modello era Chinaglia, potevo finire alla Juve e sono stato l’emblema del Toro, ho vinto un Mondiale e per 2 mila voti non sono diventato senatore». Francesco Graziani compie 60 anni e si racconta

Da bambino, a Subiaco, ogni domenica salivo al monastero di Santa Scolastica per giocare a calcio nel campetto dell’oratorio: noi ragazzini del paese contro i seminaristi. Una festa, specie quei pranzi al refettorio con mio zio, fra Donato Semproni, che un giorno disse a mia madre: “Secondo me Franco - mi chiamava così -, c’ha la vocazione». Sorride di gusto ripensandoci Ciccio Graziani che domani compie 60 anni. Uno che ridendo e scherzando, ha segnato 130 gol in Serie A,23 inNazionale e che nella classifica dei primi 10 attaccanti italiani di sempre ci sta dentro eccome. Per simpatia e umanità poi, sarebbe da Pallone d’Oro. «Messi comunque ancora il Mondiale non l’ha vinto…», dice divertito il Ciccio mundial di Spagna ’82. Ma prima di arrivare a quella pagina di sole e d’azzurro, bisogna viaggiare nel tempo, sulla corriera che da Subiaco portava a Roma. E lì che è cominciata la sua favola, non in giallorosso, ma con la piccola squadra della Bettini Quadraro. «Poi andai all’Arezzo, debutto in Serie B e nel ’73 mi acquistò il Torino». Il presidente Pianelli sborsò 5 milioni per strappare quello che nell’ambiente avevano già soprannominato il “piccolo Chinaglia”. «Giorgione Chinaglia era il mio modello e a forza di volergli assomigliare in tutto, dalla corsa alla potenza che mettevo nel calciare il pallone, alla fine qualcosa di buono sono riuscito a combinarla pure io». In otto anni al Toro combinò che con Gigi Radice allenatore, «il nostro fantastico capobanda», vinse l’ultimo scudetto granata, stagione 1975-’76, e con Paolo Pulici formava la storica coppia dei “gemelli del gol”. «In campo eravamo una cosa sola, poi fuori ognuno aveva la sua vita, ma a Paolo ho sempre voluto un gran bene. Pulici è stato l’attaccante più forte e completo della mia generazione. Forse un gradino sotto di lui veniva Bettega». Il “Bobby-gol” bianconero, acerrimo avversario di derby leggendari con la Juventus degli Agnelli. «Mai avuto problemi con quelli della Juve, eppure potrei anche avercela, visto che per colpa loro ho perso 4 scudetti e quasi sempre per un punto, tipo quello con la Fiorentina (stagione 1981-’82). Avrei invece ancora qualcosa da ridire al signor Mattei, l’arbitro che a Cagliari all’ultima giornata mi annullò il gol che ci avrebbe portati allo spareggio...

Il complimento più bello poi me lo fece l’Avvocato quando giocavo nell’Udinese: “Graziani - mi disse - sappia che l’abbiamo sempre stimata. Aveva ragione Furino, noi tanti anni fa dovevamo prenderla prima del Toro…». E invece la spalla di Bettega divenne Paolo Rossi, il “Pablito” che gli tolse il posto di titolare ad Argentina 78 e che gli rubò la scena a Spagna ’82, diventando il re dei bomber. «Ogni volta che vedo Paolo gli ricordo: mi hai sempre rotto le scatole! Ma Rossi è stato un grande campione e siamo sempre andati d’accordo, perché per me prima di tutto veniva la squadra e questo tanti ragazzotti viziati di oggi non lo capiscono». Lezione che invece lui apprese prima da Radice e poi dal “Vecio”, il ct della Nazionale Enzo Bearzot. «È stato un secondo padre con il quale mi sono confidato spesso su cose di vita più che di campo. Enzo sapeva ascoltare e consigliare, mi manca tanto ora che non c’è più». Del “Vecio” però gli restano ricordi indelebili e quel Mondiale dell’82 vinto tra silenzi stampa, presunte “combine” con il Camerun, tra lacrime e critiche feroci dei brasiliani che ancora oggi, con Zico, rinfacciano all’Italia di “aver rovinato il calcio”. «Italia-Camerun fu regolarissima, io segnai il gol del vantaggio e nessuno ha comprato nessuno. Zico invece quando ha detto quelle cose su di noi doveva essere appena uscito da qualche osteria brasiliana... La Nazionale dell’82 penso sia uno dei rari esempi di squadra in cui tutti sapevano fare tutto e questo è stato il segreto del nostro trionfo». Dopo quella straordinaria spedizione azzurra, Ciccio con la Roma avrebbe potuto vincere ancora un altro trofeo prestigioso, la Coppa dei Campioni del 1984. Un sogno infranto ai calci di rigore nella finale dell’Olimpico contro il Liverpool. Un suicidio calcistico, 10 anni esatti prima di quello tragico del capitano giallorosso, Agostino Di Bartolomei. «Era scritto che avremmo perso ai rigori. Liedholm invece con le sue scaramanzie non ce li fece tirare in allenamento perché disse: “Questa finale non si deciderà dal dischetto”. Invece proprio da lì sbagliai... Ma se tornassi indietro lo ricalcerei ancora quel rigore. Il rifiuto di Paolo Roberto Falcao? Glie lo dissi a muso duro: Paolo sarà meglio che sbagli tu sto’ rigore piuttosto che Strukely. Ma lui niente, non volle assumersi quella responsabilità e così ha perso due volte. Ma la sconfitta peggiore è stata la morte di Di Bartolomei... Se riesco ad arrivare in Paradiso, perché è solo lì che può essere finito un uomo buono e leale come Agostino, per prima cosa gli do un calcio sul sedere, poi me l’abbraccio forte e gli urlo: perché a me, a Bruno Conti e agli altri ragazzi non ci hai chiesto aiuto?», si commuove Ciccio al ricordo del suo “Ago” che porta sempre nel cuore. Come tutte le maglie che ha indossato, fino all’ultima casacca, quella degli australiani dell’Apia Leichardt. «Di fatto avevo smesso l’anno prima, nell’87, e le uniche due persone che mi scrissero per farmi sentire la loro vicinanza furono il presidente dell’Inter Ernesto Pellegrini e Luciano Moggi che non considero affatto il “mostro” del calcio italiano. Tanti sono i colpevoli del peggioramento del sistema, tifosi compresi. Finché nei nostri stadi entreranno striscioni infamanti, come quello sulle vittime di Superga, e nessuno avrà il coraggio di sospendere la partita e di sbattere in galera i soliti noti, le cose non cambieranno mai». Discorsi saggi, da leader politico. Non a caso, nel ’94 convocato da Silvio Berlusconi sfiorò il seggio in Senato. «Ero il candidato di Forza Italia ad Arezzo. Berlusconi mi chiama e m’imbriaca dicendomi che la politica dovevano farla quelli come me che non si erano ancora sporcati le mani nei giochi di Palazzo. Era convinto che mi sarebbero bastati 11 mila voti per essere eletto, ne presi 27mila, per 2mila non sono diventato senatore». Ci ride su anche su questo Ciccio che poi ha tentato la carriera di presidente di calcio con l’Arezzo, lanciando quello che considera il suo alter ego in panchina, Serse Cosmi, «sanguigno e umano, una di quelle persone che fanno tanto bene a questo calcio di marziani». Piedi a terra, non ha mai venduto illusioni Graziani, neppure quando si è messo alla guida della prima formazione da reality-show, i dilettanti del Cervia. «Sfiorammo la promozione in C2, ma gli ripetevo: guardate che questo è un sogno che presto finirà e la vita reale che vi attende sarà molto più dura di quella sotto i riflettori della tv». L’unico rimasto sotto quei riflettori alla fine è stato solo mister Ciccio, commentatore sportivo per Mediaset e ad un passo dal debutto nella fiction-tv “Polstrada”, «ma all’ultimo, il progetto è sfumato». Graziani ora ha già pronto un altro progetto che non può assolutamente sfumare. «Con Giancarlo Antognoni stiamo cercando di aprire delle scuole calcio in Sudafrica e in Costa d’Avorio. Non andiamo alla ricerca di talenti, il nostro obiettivo principale è portare un sorriso a quei bambini che non hanno niente». Una sfida da eterni “ragazzi dell’82”.