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Dal pacato Cesare all’impassibile Vincenzo, fino al tarantolato Paulo. I mille modi di vivere la panchina

L'articolo di Francesca Bandinelli su La Nazione

Redazione VN

Sulla panchina della Fiorentina, si sono avvicendati un po’tutti: dal masticatore incallito di chewing-gum Delio Rossi accecato poi dall’irriverenza di Ljajic, fino al tecnico in versione manager, Ranieri o Eriksson. Ciascuno a modo suo, hanno cercato più o meno tutti di trovare la giusta chiave di volta per dialogare con la squadra. Paulo Sousa è molto diretto, non ha nè figli nè figliastri. Sa essere brusco con Mario Suarez, uno che da solo, in carriera, ha vinto quasi più di tutta la Fiorentina, e anche con Babacar, il ragazzino che ha deciso di diventare grande in viola. Urla, si divincola, saltella quando si arrabbia, ma anche si arrampica sul divisorio tra campo e parterre per firmare autografi o lasciarsi immortalare con i tifosi. La passione, del resto, lo disse subito che lui ce l’avrebbe messa senza remore.

Montella, dal questo punto di vista, era più un «bronzo di Riace». Palmo della mano a racchiudere il mento e occhi fissi sul campo. Era il suo vice, Russo, l’addetto a prendere appunti: lui fotografava con gli occhi e reagiva sconsolato ad ogni errore. Mihajlovic, invece, toglieva anche la giacca, senza mai toccare i gemelli ai polsi della camicia. La sua divisa d’ordinanza era la sciarpa. E gli altri? Prandelli, il più amato della storia viola contemporanea, era il ritratto della normalità: si faceva sentire dai giocatori, ma quando necessario saltava pure - a partita in corso - rispondendo ai cori della gente. Mondonico è stato il tifoso al timone di comando, che il martedì nei locali lavanderia organizzava il «patto del salame» mettendoci la materia prima di sua produzione, Terim invece il turco di fuoco che ad ogni fine partita correva sotto la curva. Nessuno ha dimenticato i fischi di Trapattoni o la corsa fantastica di Malesani dopo il gol di Bati a Udine, ma questo è il tempo di Sousa, portoghese di movimento.