Lotito, il Milan, la Nazionale, la Champions. Demetrio Albertini è fuori dai quadri del calcio italiano, ma il calcio italiano gli è rimasto dentro: come tifoso, in attesa di rientrarci da dirigente. Ed è con questo sguardo disincantato, comune alla maggioranza degli appassionati in questi tempi così bui, che ci ha detto la sua nel forum in Gazzetta.
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Albertini: “Caro Lotito, sei irritante. Ti serve un insegnante”
Lotito, il Milan, la Nazionale, la Champions. Demetrio Albertini è fuori dai quadri del calcio italiano, ma il calcio italiano gli è rimasto dentro: come tifoso, in attesa di rientrarci …
Sono trascorsi sei mesi dall’elezione di Tavecchio a presidente della Figc. Dopo la sconfitta lei ha rinunciato a qualsiasi carica. Nel frattempo, i guai per il calcio italiano non sono mancati, fino alla telefonata-choc di Lotito. Un aggettivo per il patron della Lazio?
«Irritante. Ma tutto questo non mi stupisce. È una situazione imbarazzante, che può minare l’entusiasmo e la passione dei tifosi. Io sono rimasto fuori da tutto, ma non mi dimetterò mai dall’essere un tifoso. Premetto di non essere in campagna elettorale. Tuttavia, se guardo alla Federazione, noto che ogni giorno c’è qualcosa da discutere, e non in senso positivo. Mi dispiace perché la Figc è un organo istituzionale, è un patrimonio sociale di tutto il Paese ed è per questo che, di fronte alle frasi di Lotito, non basta dissociarsi con le parole».
Tavecchio, nel frattempo, ha tolto a Lotito le deleghe alle riforme.
«Ne prendo atto. Questa è la conseguenza di comportamenti non idonei al ruolo».
Il silenzio-assenso della stragrande maggioranza dei club di A ha dato fastidio anche a lei?
«Alcuni presidenti sono lontani dalla gente che ama il calcio. Girando per strada percepisci la diffidenza dei tifosi: sospettano che ci sia sempre qualcuno che voglia fare i propri interessi».
Su Facebook ha subito scritto «Io tifo Carpi e Frosinone».
«Mio figlio è tifoso del Sassuolo e mi ha chiesto: perché non possiamo stare in Serie A, pur avendo battuto Inter e Milan? Arrivare a mettere in discussione il merito sportivo è un’aberrazione. Tra l’altro, l’ultima partita vista dal vivo è stata proprio Milan-Sassuolo...».
Lo specchio desolante di quest’era rossonera: San Siro mezzo vuoto, squadra senz’anima. È finito il tempo per Inzaghi?
«Se prendi un allenatore come Pippo, poi devi sorreggerlo. È chiaro che dopo otto mesi cominci a fare una valutazione. Presi singolarmente i giocatori valgono di più dell’attuale classifica. Bisogna avere chiara in testa la situazione del Milan: oggi non ci si può specchiare nella gloria del passato ma costruire un progetto, guardare al futuro. Quando ho visitato il museo rossonero, mi sono permesso un suggerimento: lasciate qualche parete vuota in modo che possa essere riempita. Siamo a febbraio e il Milan è ancora un cantiere aperto. Bisogna prendere giocatori di prospettiva e per assemblarli ci vuole un allenatore che sia un insegnante, un maestro. In campo il leader può essere Montolivo, ne ha tutte le caratteristiche».
Vede un Milan senza Berlusconi?
«Il cuore dice di no, ma è pur vero che il calcio è cambiato profondamente rispetto a quando lui si insediò. Ora serve programmare. Mi auguro che Berlusconi abbia l’equilibrio per garantire a questo Milan qualcosa di più».
Le difficoltà di Inzaghi hanno riaperto il dibattito sull’opportunità che gli allenatori delle grandi squadre facciano la gavetta. Lei è d’accordo?
«Io ho fatto esperienza in Spagna, dove vengono svolte serie selezioni e c’è pure un test d’ingresso per gli allenatori, mentre in Italia si privilegia chi ha giocato ad alto livello. Ormai l’allenatore è la sintesi di tante cose: tattica, gestione del gruppo, psicologia. Serve un percorso articolato. Bisognerebbe fare come in Spagna».
Con quali tecnici ha legato di più?
«Sacchi e Capello hanno segnato la mia carriera. Ho avuto un bellissimo rapporto con Zaccheroni e Tabarez. Con Aragones, all’Atletico, è stato amore e odio».
C’è qualche giovane in cui si rivede?
«Valdifiori dell’Empoli e Baselli dell’Atalanta. Baselli me lo ricordo in una trasferta in Belgio dell’Under 21. Giocò benissimo. Ha le caratteristiche per diventare un grande giocatore ma ultimamente sta giocando poco, bisogna dargli fiducia affinché non resti solo una promessa».
Capitolo Nazionale. Non le sembra che il c.t. Conte abbia esagerato con le sue richieste?
«Per me la priorità è concedere il tempo giusto per preparare l’Europeo, e questo è stato fatto. Gli stage non sono essenziali. Conte è stato un grande acquisto ma in Federazione è difficile trovare equilibrio tra i vari interessi, serve una mediazione che a volte non è nelle corde di Antonio».
Se fosse diventato presidente chi avrebbe scelto?
«Non avevo contattato nessuno, i primi due della lista erano sicuramente Conte e Mancini».
La Figc ha varato le riforme sul tetto alle rose e gli extracomunitari ma siamo lontani dalla svolta per il calcio italiano. Che cosa serve?
«Lotito dice che il sistema sta saltando, però non si tratta di cambiare le regole bensì di avere obiettivi comuni. Oggi la B, la Lega Pro, i campionati giovanili viaggiano a compartimenti stagni. La madre di tutte le riforme è la riduzione delle squadre professionistiche? Bene. La chiave, tuttavia, non è il numero dei club ma la missione da assegnare ai campionati, con una riforma organica del sistema. Oggi bisogna rigenerare il mercato interno, altrimenti la A continuerà a sponsorizzare le categorie inferiori e tutto il calcio sarà sotto schiaffo della Lega maggiore, anche politicamente. E poi non aiuta il fatto che la mutualità dei diritti tv, prevista dalla Legge Melandri, non sia sotto il controllo della Federazione: così tutto si riduce a spartizione di soldi, a scapito della programmazione sportiva».
Gli arbitri sono sempre nel mirino dei presidenti. Alcuni invocano il sorteggio. Che cosa ne pensa?
«L’Uefa ci insegna quanto sia importante il designatore, quanto sia essenziale affidare alle persone e non al computer la crescita e la selezione della classe arbitrale. Io voglio il designatore».
Lo dice perché l’Aia l’ha votata alle elezioni federali?
«In quell’occasione Nicchi ha dimostrato indipendenza. Detto questo, gli arbitri sono un settore di servizio: sono patrimonio di tutti, non di un solo candidato».
È tornata la Champions. Dove può arrivare la Juventus?
«Può vantare giocatori di alto livello. La pongo sotto le favorite ma è l’unica italiana nella top ten dei ricavi. Il suo posto è quello, tra le prime otto. Poi nella fase eliminatoria può succedere di tutto. Mi rifiuto di pensare che la miglior squadra italiana non possa nemmeno ambire a vincere la Champions. Certo, in Italia deve anche crescere la qualità attorno ai bianconeri, non tanto per rendere la Serie A più allenante quanto per aumentare la presenza delle nostre nelle fasi finali delle coppe».
In questo momento quali sono gli esempi da seguire in Italia?
«Intanto, visto che siamo in tema dopo la telefonata di Lotito, va messo in evidenza il gran lavoro di società come Empoli e Sassuolo. Se in A mancano grandi piazze è anche perché piccole realtà, cui aggiungerei pure il Chievo, hanno lavorato saggiamente in questi anni. È una questione di meritocrazia sportiva e gestionale. Ad alto livello, Juventus, Roma e Napoli sono le società che hanno focalizzato meglio la programmazione sportiva: c’è sempre un senso nelle loro scelte. A gennaio l’Inter ha fatto acquisti importanti, l’arrivo di Mancini è servito per far crescere le ambizioni nerazzurre».
Che cosa si poteva fare e non si è fatto per evitare il caso Parma?
«La mancata iscrizione all’Europa League era il termometro che qualcosa non andava. Serviva una maggiore vigilanza. E va fatta chiarezza sugli ingressi societari. Il calcio è troppo importante per abbandonare a se stesse intere comunità. Negli ultimi anni tante piazze importanti sono scomparse, bisogna fare qualcosa».
Si iscrive al partito che dice sì a Roma 2024?
«Sì, perché l’Italia ha bisogno di grandi eventi. Ma conta molto la stabilità politica. Ricordo quanti problemi abbiamo avuto per la candidatura all’Europeo 2016: la legge sugli stadi perennemente calendarizzata non arrivava mai...».
Che cosa farà da grande Demetrio Albertini?
«Adesso studio, mi aggiorno, mi apro a conoscenze ed esperienze. Proprio l’altro giorno sono stato a un evento in cui è stata presentata una ricerca del Censis: il lusso made in Italy non è più un prodotto ma un’emozione. Cos’altro è una partita di calcio se non un’emozione? Dobbiamo tornare a dare emozioni per riportare la gente negli stadi».
Facciamo un gioco. Arrivano tre proposte per lei: Federazione, Milan o estero. Lei che cosa fa?
«Quella della Figc è la proposta meno probabile: dovrebbero decidere di andare in una direzione opposta a quella attuale, e non penso proprio che ne abbiano intenzione. Il Milan mi è rimasto nel cuore, la testa mi dice l’estero. Vedremo».
La Gazzetta dello Sport
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