La storia del calcio italiano insegna come a volte ti venga data una seconda possibilità. In alcuni casi (Scifo, Denis) la seconda avventura riscatta una prima da dimenticare. Nella maggior parte dei casi invece si conferma come perseverare possa essere diabolico: è successo con Abel Xavier e Hakan Sukur, di cui abbiamo già scritto. Ed è successo con Amaral da Silva Mariano, detto semplicemente Amaral.
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Nato a Capivari, paese dello stato di San Paolo, nel 1973, sembrava avviato a tutt'altro lavoro. Infatti per guadagnarsi da vivere il piccolo Amaral faceva niente meno che il becchino. D'altronde crescendo in un contesto povero c'è da fare di necessità virtù e dopo aver dato una mano al cimitero locale arrivò l'offerta di lavoro a tempo pieno.
A tempo perso tira anche dei calci ad un pallone, Amaral. Non sono piedi propriamente brasiliani, anzi. Però corre come un matto, il classico "cagnaccio" che si sbatte per due. Tanto basta per fare i primi passi da professionista, nel Palmeiras allora controllato dalla Parmalat. Diventa così calciatore a tutti gli effetti e le cose vanno pure bene: tre anni a buoni livelli che lo portano persino a essere convocato dalla Seleçao brasiliana. Il Parma di Calisto Tanzi è ovviamente in corsia preferenziale sui giocatori del Verdão. Infatti i ducali, dopo aver lasciato via libera per Roberto Carlos all'Inter, decidono di prendere Cafu e Rivaldo, i due giocatori migliori di quella che al momento era la miglior squadra del Sudamerica. Alla fine, colpo di scena, il dietrofront: nessuno dei due arriva e il club ripiega su Zé Maria e proprio su Amaral.
Non infieriremo visto che come è andata a finire è sotto gli occhi di tutti. Di certo se poteva esserci una logica nel ripiegare su Zé Maria al posto di Cafu (entrambi terzini destri) tra Amaral e Rivaldo non è nemmeno possibile fare un paragone, essendo due giocatori dalle caratteristiche totalmente differenti. E con Dino Baggio e Massimo Crippa in rosa l'acquisto di un altro mediano era quanto meno superfluo.
La prima impressione lascia perplessi, per via anche di un physique du rôle non proprio da star. L'occhio guercio sotto questo aspetto non aiuta, ma alla fine sono i piedi quelli che contano. Il problema è che anche lì le cose non migliorano. Carlo Ancelotti, che nel 4-4-2 aveva all'epoca il suo dogma, decide di provarlo a destra con pessimi risultati. Alla fine saranno 4 gettoni di presenza, da dimenticare. Finisce subito in naftalina e alla prima finestra di mercato disponibile passa al Benfica. Va discretamente bene, tanto che dopo la prima parentesi i lusitani decidono di richiamarlo. La seconda parentesi non va come la prima e così fa ritorno in Brasile.
In patria veste le maglie di Corinthians e Vasco da Gama, poi nel 2000 arriva l'incredibile seconda chance: è la Fiorentina a dargliela. La squadra si avvia a lasciare il club delle "7 sorelle" con la cessione alla Roma di Batistuta. La squadra resta competitiva e per i tecnici Fatih Terim prima e Roberto Mancini poi il brasiliano non è all'altezza, tanto da essere considerato un'alternativa ad Amoroso e Bressan. Per lui saranno solo 8 gettoni di presenza. In estate arriva il terremoto: il club è sul collasso finanziario ed è costretto a vendere i pezzi da novanta. La squadra viene costruita alla bell'è meglio. Ed è forse proprio per questo motivo che Amaral si ritrova ad essere titolare in una stagione disgraziata, culminata con retrocessione e fallimento. Sul piano delle prestazioni grande impegno ma davvero poco altro. La fine del club sancisce anche il divorzio definitivo di Amaral con l'Italia. Da lì inizia il suo pellegrinare che lo vede rimbalzare tra il Brasile e le più disparate parti del mondo: Turchia, Qatar, Polonia, Australia e Indonesia.
In quest'ultimo paese Amaral rinasce calcisticamente, a 39 anni, diventa una star giocando in due club diversi. Le ultime notizie lo vedono protagonista di una rescissione contrattuale col Poços de Caldas, squadra dello stato di Minas Gerais, per alcuni patti a sua detta non rispettati. Intanto, assicura, ci sono altri club interessati a lui. A 41 anni c'è ancora tempo per appendere le scarpe al chiodo. (TMW)
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