C'era una volta il goleador. Erano gli anni Sessanta, il calcio lo si seguiva soprattutto con la radiolina all'orecchio e i primi termini stranieri si insinuavano in un popolo che ancora aveva difficoltà con l'italiano e arrancava dietro le lezioni di "Non è mai troppo tardi" del maestro Manzi. Il cross cominciava a insidiare il traversone; il corner stava per spodestare il calcio d'angolo; il goleador si imponeva sul cannoniere (termine troppo post bellico) come sinonimo di "attaccante che segna molto". Ma “attaccante” era (ed è) una definizione troppo generica. Tutti quelli che giocavano là davanti, di solito con il 7, il 9 e l'11 sulle spalle (i numeri da tombola e anche oltre sarebbero arrivati solo alcuni decenni più tardi) erano attaccanti, ma solo quelli che segnavano con regolarità si potevano fregiare del marchio di goleador, neologismo derivato da un cocktail tra l'inglese goal e lo spagnolo matador che aveva ormai soppiantato l'autarchica rete. L'esterofilia e la voglia di esotico nel calcio non trovava, però, pace. Così arrivò il bomber a scalzare il goleador, anche se, John Charles e Beckham a parte, di autentici bomber dall'Inghilterra all'Italia non ne sono mai arrivati. Se poi l'attaccante veniva dal sudamerica, allora si poteva scegliere fra il termine inglese o quello spagnolo/argentino di puntero.
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