Lo dico e lo temo perché la vera Fiorentina non si vede da due mesi e forse oltre. A Lecce è traboccato il vaso. In questo periodo qualche sprazzo di Fiorentina è apparso, come contro l’Inter o nel primo tempo con il Napoli, ma niente più. Anche quando ha vinto, in rimonta o ai rigori, lo ha fatto raschiando il barile, aggrappandosi a uno straordinario carattere e alla forza della disperazione, senza quella capacità di imporre il gioco, di fare calcio intenso che l’ha portata in alto, esaltata fino a giocare due finali.
La Fiorentina, è evidente, fa fatica a continuare a giocare da squadra vera, con quei meccanismi che una volta venivano automatici, ora è prevedibile: questa è la fastidiosa sensazione che vorrei togliermi di dosso il più presto possibile. E le spiegazioni per questo calo di prestazioni e di tensione ci potrebbero anche essere, tipo le prolungate assenze di giocatori fondamentali come Nico e Dodò, ma non solo loro. Anche lo scarso apporto di elementi importanti per la rosa come Ikonè, Mandragora, Barak e Sottil, ha sicuramente inciso. Per non parlare del flop di Nzola e dei faticosi tempi di inserimento di Beltran. O dei ripetuti forfait di Arthur e Bonaventura.
In queste condizioni, per arrivare alla straordinaria prima parte di stagione che l’ha portata al quarto posto in classifica, in semifinale di coppa Italia e prima nel girone di Conference, la Fiorentina è andata ancora più oltre del solito. E adesso forse paga lo sforzo. Questo è il mio timore. E’ un problema di testa, come succede ai cavalli davanti agli ostacoli più alti che pur hanno saltato tante volte e d’improvviso si piantano come fossero davanti una montagna? Non lo so. Però così mi spiegherei le motivazioni ritrovate solo contro l’Inter, più difficili da reperire nelle partite “normali”.
Sta succedendo questo? Non lo so. Lo temo, ripeto. Ma non posso neppure non cogliere le stranezze di episodi inconsueti come la storia dei tre rigori battuti da chi se la sente e poi sbagliati, della barriera che si apre, dei labiali e dei gesti visti in campo, della richiesta di Bonaventura di andare alla Juve. Niente viene per caso, e non faccio filosofia, ma colgo al volo anche la dura, comprensibile autocritica di Biraghi, un altro che, purtroppo, però in campo fa fatica. Attenzione: non voglio descrivere un dramma. Più banalmente, nel calcio questi momenti ci sono, si tratta di capirli e di capire soprattutto come uscirne fuori. Mi affido all’allenatore che ha creato questa squadra: l’ha plasmata lui. Forse anche lui non la sente più così sua? Però è un tecnico di carattere, idee e qualità, se è così deve inventarsi qualcosa.
Il primo a ritrovarsi deve essere lui perché è vero che i giocatori a Lecce hanno sbagliato nel momento decisivo, ma nell’arco dei novanta minuti ha comunque meritato il Lecce. Quando una squadra non è al massimo non si possono vedere in campo assieme tre centroavanti (Nzola, Beltran e Belotti) e un altro attaccante puro come Nico. Non mi sarei scandalizzato se, sempre nelle difficoltà che questa squadra ha avuto e ha, avessi visto una catena di destra Faraoni-Kayode o una catena di sinistra Biraghi-Parisi, prima di trovare tre volte titolare il fantasma di Brekalo.
La butto lì: se questa squadra avesse fatto capire che fisicamente o mentalmente in questo momento fa fatica a giocare un calcio ambizioso, sarebbe intelligente passare a un modo di giocare più basico, meno complicato. Se si continua a giocare così, senza riuscire a fare pressing alto e organizzato, ne dico una, la fase difensiva sarà sempre ad altissimo rischio. Ecco perché spero che nel faccia a faccia sia stato detto tutto, ma proprio tutto. Per ripartire su basi vecchie rivitalizzate e condivise nelle intenzioni o su basi nuove. E non parlo di moduli, sono solo la conseguenza, l’importante restano la mentalità, la voglia, la compattezza per puntare obiettivi comuni.
Questo gruppo ha dimostrato negli anni di avere grandi valori, non può arrancare quando ancora ci sono davanti da cogliere i frutti di un grande lavoro. Bisogna provarci. Forse la Champions è troppo in alto, sei squadre sono più forti dei viola, ma siccome il quarto posto è ancora vicino, vale la pena riprovarci. Le sfide hanno sempre esaltato questa squadra, non posso credere che lo spirito sia evaporato.
Aspetto un segnale e lo chiedo a Italiano che sta guardando anche al futuro. Lui sa benissimo che passa per Firenze, da questi momenti un grande allenatore deve capire come uscirne. Anche facendo scelte drastiche. Non sono pessimista, semplicemente realista. Mi affido a lui, al valore aggiunto di Italiano. Se si fa finta di non vedere la realtà, i problemi non si risolvono. E i problemi che vediamo, che ho descritto, non poteva risolverli il mercato come pensa semplicisticamente qualcuno.
La società doveva far di più? Sì, certamente, ma non la critico per gli ultimi giorni, a me non è piaciuto l’inizio. Questa squadra andava aiutata nelle sue difficoltà dal due di gennaio, quando mancavano Nico e Sottil, quando è partito Kouamè, quando Brekalo ha chiesto di andar via e Bonaventura non stava bene. E’ vero che è stato difficile trovare soluzioni, che Traorè ha preso la malaria e ancora oggi non è pronto, ma valeva la pena comprare comunque qualcuno, anche un vecchio arnese, un Candreva della situazione, per dirne uno bravo, capace di dare una mano nell’immediato. Anche numericamente. Con il rischio di buttare soldi, lo capisco, ma in quel momento serviva fare così, l’emergenza era troppo alta. E gennaio ha presentato il conto.
Comunque ora Belotti può dare tanto, sicuramente una certezza in più in un ruolo da due anni senza padrone: ora il padrone c’è. Ma, insisto, va ritrovato il senso di squadra e di appartenenza, oltre che l’equilibrio attraverso il gioco, altrimenti anche i nuovi faranno fatica. Ho visto Gudmundsson contro l’Empoli e non lo dico per consolare nessuno, ma per fare una battuta: sembrava Sottil. Sorrido, ovvio. Lo so che è un potenziale grande giocatore, ma lo dico per sottolineare che 40 milioni erano una follia e che da solo nessuno fa niente, va ritrovata la Fiorentina.
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