La rubrica

Fiorentina in crescita, tre fronti aperti. Adesso basta conti

Marco Bucciantini
Il commento sul momento della Fiorentina che in campionato ha mostrato segni di miglioramento ed è in corsa ancora su tre fronti
Marco Bucciantini

Settimo turno superato sui sette proposti in questo biennio dalla Conference League (preliminari compresi, gironi ovviamente esclusi): 60 reti segnate in tutte le gare europee, oltre le due di media a partita, nettamente la più prolifica fra le squadre italiane dello stesso periodo, seppur agevolata dalla competizione con avversarie meno forti. Per nove volte capace di segnare più di tre reti, spesso fuori casa: c’è un timbro, c’è un nome, c’è un modo, una mentalità. In generale, c’è un’abitudine: allargandosi all’altra coppa a disposizione (la Coppa Italia), la Fiorentina delle ultime tre stagioni ha superato16 turni a eliminazione diretta su 17 - fallendo solo la semifinale contro la Juventus, con molti rimpianti, “indirizzata” dalla sconfitta dell’andata, conclusa con lo sfortunato autogol di Venuti dopo che i viola tirarono in porta circa 25 volte. Ma fu quell’edizione della Coppa una delle migliori della storia recente, di valore superiore anche alla finale scorsa: per giocare la semifinale la Fiorentina andò a battere sia Napoli che Atalanta in trasferta, segnando 8 reti, dopo aver superato un paio di turni per via della mortificante classifica della stagione precedente (i viola cominciarono dai 32esimi di finale). Quella Coppa, sommata alle vittorie in campionato contro il Milan, la Roma, lo stesso Napoli, infine la Juventus riconsegnarono alla Fiorentina una dignità e un’appartenenza alla propria storia, confermate poi dalla stagione scorsa, più diseguale ma conclusa giocando tutte le partite messe a disposizione, per via delle finali raggiunte (e perdute).

Direte: lo sapevamo. Vero, ma siccome siamo già ai bilanci - vivendo una continua necessità di giudizi universali, di valutazioni definitive, di critiche nette e inappellabili - c’è sembrato giusto portare all’argomento anche qualche numero, che racconta i fatti per come si sono svolti: come disse quello, i fatti hanno una loro tenace testardaggine nel ricordare la verità. Comunque la corsa è per fare meglio, direbbero dallo spogliatoio. La Fiorentina voleva migliorare i risultati, cioè trovare l’Europa League: a sessanta giorni dalla fine della stagione, le tre porte per entrare nell’Europa superiore a quella giocata l’altro ieri sono ancora aperte. Tutte: Coppa Italia, Conference (adesso un quarto di finale contro il Viktoria Plzen, da favoriti con distacco) e Campionato dove per una manciata di secondi (e una manata di rigori sbagliati) la Fiorentina non è a mezza partita dal posto che vale la Champions.


Basta conti: la cosa più importante è veder la squadra correre e farlo bene. Vederla crescere di condizione atletica e di conseguenza anche di sicurezza mentale, non avendo mai smarrito la missione - quell’impasto di lavoro, concetto, mentalità, identità che dovremmo riconoscere con più affetto, al di là della riuscita. Le ultime due partite casalinghe con Lazio e Roma sono le migliori per compattezza e continuità (nel mezzo la trasferta magra ma tutto sommato ben conservata a Torino che non ha aggiunto niente alle speranze ma non ha tolto certezze). Belotti ha dato peso, presenza, serietà al ruolo di centravanti e di conseguenza ha migliorato tutto l’approccio all’area avversaria. In più la sua tenace lotta dilata di qualche decimo la ripartenza avversaria, se la palla è persa nei suoi paraggi. Deve ancora crescere la connessione con Beltran e Nico, la conoscenza reciproca, quel “patto” segreto fra attaccanti che insieme devono combattere lassù. Quel gioco di sguardi e intuizioni e presentimenti un po’ spontanei e un po’ allenati ma di sicuro figli dello stare insieme, in campo, contro e nel mezzo agli avversari.

Come succede nei sogni pensati, mischiati al tifo e all’attesa, siamo a costruire il futuro manipolandolo per convenienza. Ma per una volta possiamo usare gli arnesi forniti dal passato, anche recente, con quello che sappiamo di questi giocatori, delle loro qualità. È chiaro che il crescere della condizione di Nico lo gonfia oltre gli altri, quando sta bene tende a vedere se stesso, a completare da solo quello che serve, ma un allineamento di virtù è possibile perché la pressione sui difensori, palla alta, palla a terra, assicura una forza d’impatto mai avuta da tanto tempo, e questa prevalenza, quest’agitazione portata alla linea avversaria crea quel disordine dove Beltran e Bonaventura possono darsi da fare, leggendo bene gli spazi, avendo classe e confidenza con le conclusioni rapide. Contro Lazio e Roma (anche in assenza di Beltran - contro i giallorossi) si è visto in modo netto quanto un incombere più potente e incisivo della Fiorentina nell’azione d’attacco crei un’impressione di forza, un sentimento che muove la partita nella direzione giusta, che abbassa gli avversari ma al tempo stesso li angoscia e disunisce. Quattro gol, quattro pali, due rigori sbagliati, molte occasioni e un possesso emotivo delle due partite quasi nella loro interezza, con qualche concessione solo a un gruppo molto vitale e mentalmente carico come quello romanista.

È un tempo breve per concludere con certezza, ma è un tempo serio e importante, forse nuovo. La Fiorentina è uscita da una fase che non le si addiceva, una secchezza di gioco, un regresso di bellezza dovuto a intenzioni che non sfogavano, creando una recessione delle ambizioni e della possibilità e il solito riflesso delle critiche esasperate. E in questi tempi di obsolescenza programmata (tema che fu del primo pezzo per Violanews) - anzi “obsolescenza provocata” - dove tutto invecchia in fretta, come vestiti consumati dalla moda prima che dall’uso, come giocattoli desiderati e subito accantonati per averne di nuovi, anche questi uomini erano stati sdruciti senza riguardo (i dubbi su Bonaventura….), anche i migliori protagonisti di questi anni recenti, di queste partite importanti, di queste soddisfazioni “di risulta” rispetto alla storia viola, ma pur sempre crescenti rispetto al penoso triennio che ha preceduto l’arrivo di Italiano, anche lui sempre giudicato, esaltato, vilipeso: come se la critica si potesse esprimere solo sentenziando, quando invece è anzitutto analisi, accumulo, costruzione e confutazione continua di un giudizio che deve sempre tener conto anche dell’altrui lavoro, e non solo della sconfinata presunzione di chi esiste solo polemizzando.

Chiedere alla passione la calma è negarle la ragione ma intossicarsi da soli non è sano e nemmeno naturale, siamo da millenni impegnati nella conservazione e ripetizione della specie. Siccome il tifo è vita, dovremmo tenerci molto, curarlo di pazienza e affetto. Siamo alle solite (è un tema che ritorna, che sento decisivo): la manifestazione del pensiero pare essere ormai sovrapposta alla polemica. Solo l’opinione contraria, puntuta, insinuante sembra aver rango costituzionale (difesa della libertà). È un odioso e forsennato e disonesto discorso che riduce alla verità ogni cosa vada in opposizione. Sono tempi un po’ fanatici, ma si va avanti, si fa il fuoco con la legna che c’è. Dunque dicevamo: il centravanti c’è. Nico c’è (per metà, ma l’importante è che fiorisca a Primavera), Jack c’è e Barak lo può surrogare. Beltran può diventare l’uomo in più. Serve Arthur perché la palla viaggia meglio, se passa da lì. Sottil con la Roma ha giocato la sua partita più credibile in maglia viola. Dodò può aggiungere coraggio e giocate decisive. Se stanno tutti bene, insieme, questi sessanta giorni forse li ricorderemo ma non è ottimismo sperarlo: è semplice fiducia negli uomini per come li abbiamo conosciuti, per quello che hanno dato e per quanto possono dare: ma è sport, bisogna pretendere serietà, impegno, senso di appartenenza, e convivere con la mancanza di valori assoluti e l’instabilità di una bellissima disciplina che misura: in centimetri, secondi, gol, e ogni volta ricomincia da capo.

Ancora tre impulsi, sguardi caduti nelle cose di questi giorni: lo stadio dell’Atletico è qualcosa di meraviglioso, senza tempo, magico, indelebile. Quanto è fondamentale una compattezza ambientale, una sentimento comune per ribaltare una partita e un destino. Dirlo è semplice, ammirarlo è dovuto, costruire e difendere quest’unità è tutt’altra cosa.

Poi: lo stato del calcio italiano (gratificato oltremisura dal ranking europeo) è invero penoso, scurrile, sguaiato: allenatori che risolvono il nervosismo a minacce o testate, giocatori simulatori e felloni, che ammutinano per togliersi di mezzo un tecnico sgradito, una dozzina di presidenti che navigano con debiti da fallimento (e bisognerebbe avere più rispetto per chi invece gestisce in modo serio i conti), altri che aggrediscono cameraman e pretendono di scegliersi i giornalisti, violando le regole che sottoscrivono di disponibilità (pagata) per le interviste. Qualche inchiesta ogni tanto per ricordarci che chiedere autonomia e meritarsela sono concetti distanti, un presidente Federale coinvolto in un regolamento di conti interno con un presidente di club, e che comunque nell’ultimo giorno del precedente mandato impegna una Lega a una spesa pluriennale, per compiacere un amico che poi gli avrebbe elargito una caparra per un affare mai concluso (che credibilità ha un uomo così, che occupa una carica così delicata?).

Ma l’ultima occhiata è piacevole: contro la Roma la Fiorentina aveva in campo tre giocatori cresciuti (o compiuti) nel settore giovanile: Kayode, Ranieri, Sottil. Un pezzo di squadra deve essere fatta in casa, è bello, è importante, crea un senso, lascia più spazio agli investimenti dove servono.

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