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Belcalcio

Fiorentina, fra Padovani e Bernabeu

Marco Bucciantini
Torna Marco Bucciantini con la sua rubrica esclusiva dal titolo "Belcalcio". Un pezzo tutto da leggere
Marco Bucciantini

La prossima è contro l’Inter, la più forte e la più vincente di questi recenti anni. Una grande partita: un tempo avrebbe pervaso di emozione e attesa tutta una comunità. Il quarto posto (ancora Viola) non sembra un riconoscimento condiviso: in questo tempo di obsolescenza programmata, che ci fa spendere troppo per elettrodomestici che durano poco, per vestiti che durano una stagione, in questa depravazione del capitalismo che si chiama consumismo, ecco, aspettiamo un’ala con molta più trepidazione rispetto alla sfida massima che il calcio italiano possa oggi offrire. È un problema culturale, dunque noioso e profondo.

Oltretutto queste ultime stagioni tracciano una cronaca molto più saporita in campo che sul mercato ma il presente non agisce più come dovrebbe, non emozione quanto la costruzione (spesso fasulla) di un futuro. Sempre un tempo tutto era scandito: c’erano i giorni del mercato e dei sogni e giorni del campo e delle illusioni e delle disillusioni. Oggi tutto si sormonta ma per non sembrare tromboni o peggio, bisogna vivere i tempi che toccano, che tanti (tantissimi) aspetti sono migliori. Quindi parentesi sul mercato, per essere moderno (modaiolo).


Sul mercato, ho sempre avuto una posizione: la squadra può migliorare solo comprando titolari. E un titolare di solito è riconoscibile dalla biografia o dal talento, due qualità che costano, ma d’altra parte niente costa di più di un giocatore comprato a poco ma che serve a niente. Brekalo è più diseconomico di Gonzalez, è ovvio. Siccome a destra il titolare è Gonzalez, Ikonè può essere la sua riserva, in attesa di piazzarlo bene. Inutile aggiungerne un altro inferiore a Nico. Forzatura che è valida (caso Parisi) se l’investimento è profondo, lungo, e le qualità già provate in questa mischia che è la serie A. Infatti Ngonge (che gioca ovunque, ma preferisce la destra) rientrava in questo calcolo. Trentadue partite, undici gol, cinque assist: questo il suo approccio nel nostro campionato, dopo molti gol segnati in Olanda da altre zone del campo. Ma Ngonge è andato altrove, soprattutto perché costava troppo: anzi, costava più di quanto vuole spendere Commisso (a me Ngonge piaceva tanto, poi lui o Nico potevano tentare qualche partita a sinistra, Nico d’altra parte due anni fa si vedeva meglio da quella parte). Baldanzi rientra in questo discorso: non è superiore a Bonaventura, adesso. Ma promette, è vivace, vispo, verticale. Ovviamente, costa.

La Fiorentina ha un ammanco a sinistra, quello è evidente: Sottil, Kouamé, Brekalo, in ordine decrescente di rendimento, non hanno conquistato i gradi. Non hanno fornito statistiche. Dunque serve un ala di piede destro che irrobustisca il quoziente gol/assist della squadra. I nomi che girano, che sono vicini, vicinissimi, quasi arrivati, non hanno niente da presentare che sia superiore ai nostri. Non è una battuta: è la loro recente biografia. E questo sfugge al senso. Due recenti operazioni in difesa spiegano bene: Faraoni arriva - pianificato - appena apre il mercato per smezzare il lavoro da terzino destro e sul documento ha 350 partite di valore crescente. Mina è venuto l’altra sessione, l’ultimo giorno, dopo tentativi di ben altro costo, portando i suoi malanni (1.300 minuti circa nelle ultime due stagioni, circa sette partite piene a stagione) e quelli ci ha mostrato. Così sembra facile, battendo i polpastrelli sulla testiera siamo direttori sportivi coi fiocchi e allenatori sopraffini. Però “usa l’almanacco panini”, mi diceva un vecchio dirigente, quando m’informavo sulla bravura di un giocatore: dal passato si capisce molto.

Finita parentesi mercato, il mio inutile contributo l’ho dato: meglio nessuno di Rodriguez, se volete riassumere con un titolo. Meglio qualcuno di bravo per crederci, per spiazzare, per cercare una clamorosa qualificazione Champions che sarebbe superiore al valore della Fiorentina ma nei pressi dei Viola in classifica nessuna è così solida, forte, riuscita da escludere le altre. Per me la più forte in zona resta il Napoli. Curiosamente, le due diverse, perfino polari partite contro i campioni d’Italia hanno un meridiano che le congiunge: sono due partite “manifesto” della Fiorentina. A loro modo, raccontano bene la squadra, le danno un contorno superiore e ne definiscono anche il margine inferiore.

La vittoria al Maradona sembrò il compendio di due anni abbondanti di lavoro, la costruzione di una mentalità che si era radicata in un gruppo fino a diventare identità, vero schema tattico che distingue le squadre nel calcio moderno. Quel giorno, la personalità corale elevò le prestazioni individuali e spesso il concetto della Fiorentina è parso superiore al valore singolo dei giocatori: talvolta, fino a creare frustrazione. Quella partita fu talmente piena, limpida, totale - e così assaporata, arrivando prima di una pausa per le partite delle Nazionali - che generò un riflusso e tre sconfitte che sembrarono riallineare la Fiorentina al reale valore. Poi, la classifica è nuovamente tornata straordinaria, complici anche gli inciampi di Roma e Napoli ma è sacrosanto attribuire a quella mentalità (che fa pensare “positivo” la squadra anche dentro alle partite difficili) un piazzamento che proietterebbe la Fiorentina nella prossima Champions.

Ma è altrettanto significativa la sconfitta araba, giocata davanti a novemila persone, con spalti di figuranti e tribune spopolate come ai tempi del Covid, spalti muti di passione e anche andare a giocare in Arabia forse significa essere malati. Questa marchetta spudorata e senz’anima, in mezzo a un deserto di sabbia e di valori - che per mio gusto ci vedeva anche abusivi (una finalista di Coppa Italia, con quattro partite “qualificanti” delle quali tre in casa, non può giocare per un trofeo di “vincitori”) - ha squadernato i limiti della squadra, evidenziati anche se non rivelati, solo perché erano già noti. E allora i viola si sono infranti nello stare in attacco senza riuscire ad attaccare, e fra i vari motivi (compreso la strategia del Napoli) quello che è possibile rimediare è la difficoltà di vincere i duelli tali da rendere efficace l’atteggiamento di squadra.

Cosa già nota, si diceva, ma se la classifica di Campionato fornisce consolazione e restituisce a tutti i protagonisti la meritata gratitudine (o almeno dovrebbe: siamo un popolo incagliato nella critica perenne) la semifinale di Supercoppa invece è un manifesto di limiti superabili solo migliorando l’organico. Non ampliandolo: migliorandolo, sostituendo i titolari di alcuni ruoli. La cornice tattica è chiara, questo aiuta. L’impressione è che sia una squadra sulla quale possa essere virtuoso investire: perché quelli forti si sono divertiti (Gonzalez, Vlahovic, Bonaventura), perché l’aridità di certe statistiche lascia ampi margini per migliorare. L’impressione è che Firenze voglia condividere l’occasione. Questo mercato avrebbe un valore politico - non quella politica fatta di politici opportunisti e di promesse e voti di scambio, e spero con il cuore che la squadra resti fuori da questa propaganda. Un valore politico vero, etimologico, “quell’arte che attiene alla città”, come atto di direzione del senso di appartenenza di una comunità. È un punto decisivo: anche le migliori cose come la grossa classifica, la personalità protagonista di una squadra oltre i propri limiti - una cosa bellissima, per un tifoso - o lo splendido Viola park, dove la cultura del dettaglio e del lavoro emergono e rafforzano l’avventura, ecco, anche questo non viene vissuto come valore condiviso, non crea quell’emozione collettiva che è la magia di questo sport così popolare, così avvitato nelle nostre esistenze. Si è tutti campioni di romanticismo con i soldi degli altri, ma a volte ci sono atti che creano qualcosa di forte, che legano: ecco, questo significa investire.

Perché c’è una necessità estrema di cambiare discorso, o di centrarlo, di trovarne la polpa, di giocare una grande partita contro l’Inter. di schiudere un orizzonte nuovo, di allineare i sogni. Si parla ogni giorno di stadi. Può darsi che la Fiorentina fra otto mesi giochi al Padovani, o in un Franchi dimezzato o chissà dove o in mutandoni in Santa Croce, ma pensate che storia se invece giocasse al Bernabeu, in Coppa dei Campioni, quasi settant’anni dopo quella finale.

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