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Fiorentina, con Belotti per ricominciare: la lettera aperta

Marco Bucciantini
L'editoriale di Marco Bucciantini in esclusiva per Violanews sul "gallo" Belotti e la volontà di ripartire da lui
Marco Bucciantini

Lettera aperta - come si scriveva un tempo, quando erano parole per farsi leggere e non per farsi rispondere. Va ad Andrea Belotti, a quello che è stato, che deve tornare, al nostro bisogno di lui, al suo bisogno di un popolo che torni a sventolarlo, come fu a Torino, al Toro. Abbiamo già detto della suggestione di questo incrocio di necessità, che convoca le parole dell’urgenza, che spera nei gol che permettano a lui di ritrovare qualcosa di lontano (ma non perduto) e alla Fiorentina di riprendersi qualcosa dirigente, recentissimo, scivolato via dalle dita come la sabbia asciutta o come una presuntuosa illusione.

Insieme, cambiare il discorso deludente che sta corrodendo questo sentimento. Racconto che non trova mai uno slancio, un abbraccio, un orizzonte limpido da avvicinare insieme, o da inseguire per sempre ma accanto, come quell’utopia di Galeano: la luce di fondo che serve per camminare. No, non va così: ognuno sembra comodo nel suo brodo, nel suo brodino, nella prudenza e nel vittimismo, nella richiesta incessante e nelle rivendicazioni e nel rendi conto: la partita doppia ha scavalcato la partita di calcio. Resta - ultima divagazione, poi parliamo di un centravanti - l’impressione di un malinteso: questa industria particolare che è il calcio non si valuta solo per la quota - il successo - ma soprattutto per le emozioni che mette in circolo, per la condivisione dei momenti (belli, brutti), per l’apparenza che crea, per i legami che rafforza, per la solidarietà e il soccorso per provoca, spontanei, nei protagonisti: calciatori, appassionati, tifosi, dirigenti, proprietari, istituzioni (il calcio è molto importante in un determinato territorio politicamente definito). Davanti alla diaspora di un popolo che vorrebbe invece approdare insieme, ovunque sia, bisogna farsi delle domande e non solo chiudersi nelle rivendicazioni. Vale per tutti. Certamente le vittorie fanno crescere, “montano” un entusiasmo che recinta le emozioni, ma basta affacciarsi altrove per vedere ambienti in difficoltà a pochi mesi da storici scudetti. Questa industria onirica vuole meno e vuole di più.


Intanto vuole un centravanti perché non è un posto che si può lasciare vacante, o umiliare di tentativi. Belotti è qui da poco e può darsi che ci resti pochissimo: di solito le storie cominciano meglio ma si possono riempire di tante cose, e scrivere, scrivere, riscrivere, cambiare. Il finale non esiste, prima dell’ultima pagina. Il ragazzo ha l’indole che serve per qualsiasi trama: lotta, e lo fa con infinito coraggio. Lo ricordiamo gettarsi sulla palla, in qualunque contesa: lo ricordiamo abitare il campo con la foga del pellegrino alla ricerca di una città fantasma. Lo ricordiamo battere in duello uomini di misure maggiori, per altezza e peso. Andrea Belotti, in fondo, è sul metro e ottanta e pesa circa settanta chili: non si direbbe perché quando combatte sembra enorme, infinito e instancabile. Lo ricordiamo essere: lui c’è. In mezzo agli altri o ramingo nel campo avverso, questo manifesto al coraggio.

Tratteniamo questa parola, per qualche riga.

Il coraggio è un’identità bellissima. Il coraggio è l’unica emozione che si diffonde, subito, perché è riconoscibile, raggruppa, avvicina. Che va naturalmente dal campo verso le tribune (e verso i divani, a casa).

Il coraggio è tecnica, bisogna ammetterlo: avvicina gli atleti normali ai campioni, li eleva, fa loro scoprire delle possibilità che senza il coraggio non sarebbero mai esplorate: certo, senza il talento dei campioni non sarà una conquista solida, ma lo sport è fatto di momenti, una partita è un prodotto “finito” e irripetibile: vi si può agire, aggiungere forze (e toglierle). Per questo vediamo il lamento plateale di campioni senza compassione quando vedono nei compagni la rinuncia: un calciatore può sbagliare un tiro, non può rinunciare a tirare. Un terzino o una mezzala possono umiliare la geometria limpida di un triangolo, ma non possono sottrarsi al tentativo di sfondare la linea difensiva che hanno davanti, ancorché seria, forte, numerosa. Ci sono partite difficili che diventano proibite dalla mancanza di coraggio. Ci sono partite impossibili che un coraggio corale mette a disposizione della vittoria.

La forza del David che protegge Palazzo Vecchio non è nei muscoli scolpiti per rassicurare sulla virilità della Repubblica (oltretutto, il giovane biblico era invero uno stenterello, così come proposto in altre opere): la forza è nello sguardo in avanti, nelle fede, nel coraggio mostrato davanti al gigante dei filistei. Abbiamo bisogno di quello sguardo. Di quella lotta. Il compito per il centravanti è questo: riallineare gli sguardi del mondo Viola verso la porta avversaria, verso il futuro. Belotti non è tipo che si non cruccia se altri disertano, non volta lo sguardo indietro: quello che conosciamo - come certi condottieri - porta il cuore più avanti, infila i suoi pensieri nel compito difficile. In questo, pensa da centravanti: il lavoro degli altri serve fino a dove non tocca a lui. Infatti protesta con il destino se una conclusione non lo premia, inveisce al cielo, infierisce su se stesso. Ci coinvolge in questa sua sfida: attende il confronto con il gigante, fionda appoggiata sulla spalla, braccio pronto all’azione, sguardo lì, dove dovrà accadere, muscoli pronti, una statua di pulsioni nobili in movimento. La vera arma è la fede: di farcela, di mettere tutto se stesso nel tentativo.

Belotti, allora. Per la Fiorentina, per una squadra che sta sbagliando la narrazione di sé, per un gruppo in lotta ancora su tutti gli obiettivi - la qualificazione in Europa (lo scorso anno di questi tempi era più distante), la Coppa Italia, la Conference (lo scorso anno, sempre di questi tempi, c’era da preparare il turno di spareggio). Stiamo leggendo i necrologi di una squadra viva (in redazione richiamano “coccodrilli”), di una squadra che ha già mostrato di sapersi accendere perché è metallizzata sul protagonismo, una squadra che da due anni rende orgogliosi i propri tifosi. Eppure, troppa gente aspetta il peggio: succede perché è evidente l’affanno nell’addossare le colpe per un tracollo ancora evitabile. C’è sempre tutto da fare. C’è un centravanti che non aspetta altro: fare. Fionda sulla spalla, sguardo verso la porta, corpo disposto al martirio e la fede ostinata che difende il sentimento che più ci avvicina, vincenti e perdenti, appassionati o tifosi: la speranza.

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