Intanto vuole un centravanti perché non è un posto che si può lasciare vacante, o umiliare di tentativi. Belotti è qui da poco e può darsi che ci resti pochissimo: di solito le storie cominciano meglio ma si possono riempire di tante cose, e scrivere, scrivere, riscrivere, cambiare. Il finale non esiste, prima dell’ultima pagina. Il ragazzo ha l’indole che serve per qualsiasi trama: lotta, e lo fa con infinito coraggio. Lo ricordiamo gettarsi sulla palla, in qualunque contesa: lo ricordiamo abitare il campo con la foga del pellegrino alla ricerca di una città fantasma. Lo ricordiamo battere in duello uomini di misure maggiori, per altezza e peso. Andrea Belotti, in fondo, è sul metro e ottanta e pesa circa settanta chili: non si direbbe perché quando combatte sembra enorme, infinito e instancabile. Lo ricordiamo essere: lui c’è. In mezzo agli altri o ramingo nel campo avverso, questo manifesto al coraggio.
Tratteniamo questa parola, per qualche riga.
Il coraggio è un’identità bellissima. Il coraggio è l’unica emozione che si diffonde, subito, perché è riconoscibile, raggruppa, avvicina. Che va naturalmente dal campo verso le tribune (e verso i divani, a casa).
Il coraggio è tecnica, bisogna ammetterlo: avvicina gli atleti normali ai campioni, li eleva, fa loro scoprire delle possibilità che senza il coraggio non sarebbero mai esplorate: certo, senza il talento dei campioni non sarà una conquista solida, ma lo sport è fatto di momenti, una partita è un prodotto “finito” e irripetibile: vi si può agire, aggiungere forze (e toglierle). Per questo vediamo il lamento plateale di campioni senza compassione quando vedono nei compagni la rinuncia: un calciatore può sbagliare un tiro, non può rinunciare a tirare. Un terzino o una mezzala possono umiliare la geometria limpida di un triangolo, ma non possono sottrarsi al tentativo di sfondare la linea difensiva che hanno davanti, ancorché seria, forte, numerosa. Ci sono partite difficili che diventano proibite dalla mancanza di coraggio. Ci sono partite impossibili che un coraggio corale mette a disposizione della vittoria.
La forza del David che protegge Palazzo Vecchio non è nei muscoli scolpiti per rassicurare sulla virilità della Repubblica (oltretutto, il giovane biblico era invero uno stenterello, così come proposto in altre opere): la forza è nello sguardo in avanti, nelle fede, nel coraggio mostrato davanti al gigante dei filistei. Abbiamo bisogno di quello sguardo. Di quella lotta. Il compito per il centravanti è questo: riallineare gli sguardi del mondo Viola verso la porta avversaria, verso il futuro. Belotti non è tipo che si non cruccia se altri disertano, non volta lo sguardo indietro: quello che conosciamo - come certi condottieri - porta il cuore più avanti, infila i suoi pensieri nel compito difficile. In questo, pensa da centravanti: il lavoro degli altri serve fino a dove non tocca a lui. Infatti protesta con il destino se una conclusione non lo premia, inveisce al cielo, infierisce su se stesso. Ci coinvolge in questa sua sfida: attende il confronto con il gigante, fionda appoggiata sulla spalla, braccio pronto all’azione, sguardo lì, dove dovrà accadere, muscoli pronti, una statua di pulsioni nobili in movimento. La vera arma è la fede: di farcela, di mettere tutto se stesso nel tentativo.
Belotti, allora. Per la Fiorentina, per una squadra che sta sbagliando la narrazione di sé, per un gruppo in lotta ancora su tutti gli obiettivi - la qualificazione in Europa (lo scorso anno di questi tempi era più distante), la Coppa Italia, la Conference (lo scorso anno, sempre di questi tempi, c’era da preparare il turno di spareggio). Stiamo leggendo i necrologi di una squadra viva (in redazione richiamano “coccodrilli”), di una squadra che ha già mostrato di sapersi accendere perché è metallizzata sul protagonismo, una squadra che da due anni rende orgogliosi i propri tifosi. Eppure, troppa gente aspetta il peggio: succede perché è evidente l’affanno nell’addossare le colpe per un tracollo ancora evitabile. C’è sempre tutto da fare. C’è un centravanti che non aspetta altro: fare. Fionda sulla spalla, sguardo verso la porta, corpo disposto al martirio e la fede ostinata che difende il sentimento che più ci avvicina, vincenti e perdenti, appassionati o tifosi: la speranza.
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