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Le nuove maglie lontane dai cuori viola

GUARDI le nuove maglie della Fiorentina, quel viola imbottito di sottilette d’oro più adatto alla canottiera d’un trapezzista sloveno che non a un puntero di calcio, e il dubbio ti …

Redazione VN

GUARDI le nuove maglie della Fiorentina, quel viola imbottito di sottilette d’oro più adatto alla canottiera d’un trapezzista sloveno che non a un puntero di calcio, e il dubbio ti prende alla gola: ma perché la semplicità è stata sfrattata dal mondo del pallone per far posto a quasta modernità trash?

Magari è solo il mugugno polveroso di chi ha il cuore conficcato nel Novecento, ma com’era bella la Fiorentina con le maglie viola di lana grezza cucite dalle sorelle Tortelli, che quando pioveva diventavano pesanti come l’armatura di Lancillotto. Maglie semplici ma sacre come tabernacoli alle quali l’unica aggiunta consentita era il giglio sul petto. E dunque la Fiorentina viola e nero di Maraschi e Chiarugi che vinse lo scudetto; quella del primo Antognoni e del Gringo Clerici; la Fiorentina di Speggiorin che non segnava mai e di Desolati che invece ogni tanto la metteva dentro; la Fiorentina, insomma, di intere generazioni nate alla passione con negli occhi quel cromatismo semplice e formidabile e l’idea che i simboli fossero per sempre, oltre la girandola stagionale del business e il nulla confezionato bene del merchadising.

PER QUESTO, già nel 1978 le tre righe bianche dell’Adidas che spuntarono sul viola sembrarono una profanazione. Quando poi, nell’81, i Pontello ripensarono il simbolo, creando un ogm osceno fra il giglio e la F di Fiorentina, (una sorta di pecora Dolly dei loghi sportivi) sembrò il culmine di tutti gli scempi. Invece era solo l’inizio. Da allora, come i cataloghi Ikea e il look di Valerio Scanu, anche la maglia della Fiorentina ogni anno è cambiata. Con i pantaloncini diventati nel frattempo anch’essi viola, in un monocromatismo più adatto ai marciatori olimpici alla Abdon Pamich che non ai calciatori. Maglie a volte anche belle (come quella del ’95-’96 con i giglioni sulle spalle, ad esempio), più spesso orribili (quella a chiazze con lo sponsor «7 Up»; quella da orchi dislessici con lo sponsor «Giocheria») ma sempre con l’idea un po’ trash che la modernità dovesse prevalere sulla semplicità e sulla tradizione. In un rinnovamento annuale che, di fatto, ha esorcizzato ogni rimando alla poesia della storia, buttando il passato in discarica come fosse una scatoletta di cetrioli scaduta, un disco di Gianni Nazzaro! Che errore. Così oggi, che nel calcio di sacro non è rimasto che l’osso dove si prendono le ginocchiate, rivedere la Fiorentina semplice in viola scuro senza farcizioni d’oro e magari coi pantaloncini neri, sarebbe non solo un tuffo nella nostalgia migliore di quando da ragazzi sostenevamo: «Non importa chi va e chi viene, l’imporante è che non cambi la maglia», ma anche un balzo in un futuro solido di certezze antiche. Perché i simboli sono ricchezza e i ricordi emozione mentre il bisogno di nuovo è dei predatori del marketing, dei venditori di televisori e degli imbonitori da circo. L’oro lasciamolo a loro.

Stefano Cecchi - La Nazione