«Mio padre aveva la mia età quando è morto». Andrea Lorentini ha trentadue anni e fa il giornalista sportivo. Vive ad Arezzo. Suo padre Roberto è una delle vittime dell’Heysel. Era il 29 maggio 1985, e un’ora prima della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool il muro del settore Z dello stadio di Bruxelles crollò, trascinandosi via la vita di trentanove persone. Una ferita che non si è mai cicatrizzata, una delle pagine più nere del calcio. Una follia. Come quei cori che ogni tanto rimbalzano dentro gli stadi quando gioca la Juventus. «La gente non si rende conto di cosa abbiamo passato, e di cosa significa per noi sentire quei cori. È una vergogna».
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“Io, orfano dopo l’Heysel ferito dai cori della vergogna”
Parla Lorentini, suo padre morì a Bruxelles: “I tifosi viola…”
Andrea, perché dopo trent’anni di silenzio ha deciso di parlare proprio adesso?
«Perché sono stanco e non capisco perché si continui ad accanirsi sul ricordo di chi non c’è più. Trovo quei cori incivili e irrispettosi. Offendono la memoria delle vittime e il dolore delle famiglie. Io capisco la rivalità tra Fiorentina e Juventus, e capisco anche gli sfottò, ma questo con quei trentanove morti non c’entra niente. E allora, per favore, smettetela. Lasciateci in pace. E lasciate in pace chi non c’è più». (...)
Forse anche la Fiorentina potrebbe fare qualcosa, non crede?
«Guardi, ci tengo a chiarire una cosa: io non ce l’ho assolutamente con i tifosi della Fiorentina. Ce l’ho con chi continua a fare quel coro e ogni volta offende la mia famiglia, mio padre e le famiglie di tutti gli altri morti. E mi piacerebbe che i Della Valle, che portano avanti la loro battaglia sul fair play, prendessero posizione per isolare certa gente. Scriverò personalmente alla Fiorentina e ai Della Valle per chiedere che la società intervenga. Subito. Penso che sia arrivato il momento di dire basta, basta, basta». (...)
E come le spiegarono che suo padre non tornava a casa?
«Non ricordo nemmeno questo. Mio padre faceva il medico e immagino che mi dissero che sarebbe stato fuori per un po’ e che non sarebbe tornato tanto presto. Insomma, quelle cose che si dicono ai bambini. Ho saputo molti anni dopo cosa era successo, quando sono cresciuto e mi sono documentato. Ho rivissuto l’orrore di quella sera centinaia di volte».
Sa come è andata?
«Sì. Come ho già detto mio padre era medico, ed era anche piuttosto grosso quindi era riuscito ad uscire dallo stadio e a mettersi in salvo. Ma appena arrivato fuori ha visto un ragazzo a terra, ferito, ed è rientrato dentro lo stadio per soccorrerlo. Però mentre gli stava facendo la respirazione bocca a bocca è stato travolto da una seconda ondata di persone. E non si è più rialzato». (...)
Il calcio dovrebbe essere un bel momento di aggregazione, invece sempre più spesso mostra il suo lato peggiore. E i provvedimenti che vengono presi non sono mai adeguati.
«È vero, penso anch’io che si dovrebbe fare di più. Mi piace il calcio etico di Prandelli, però non basta. Tutti dovrebbero impegnarsi per ridare al calcio la sua dimensione di sport e basta. Invece troppo spesso è ostaggio della stupidità di alcune persone che non me la sento nemmeno di chiamare tifosi. E io sono stanco. Stanco di vedere che il nome di mio padre, e quelli delle altre vittime, vengono continuamente infangati. Stanco che non si faccia niente per fermare questa barbarie. Stanco che non ci sia rispetto per le famiglie delle vittime, per tutte quelle madri, mogli e figli che hanno perso qualcuno. Non si può essere spettatori passivi di questa vergogna».
la Repubblica
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