Quando i complimenti superano il livello di guardia, e ultimamente gli è capitato spesso (anche a sproposito o per pura piaggeria), Prandelli dice una cosa che gela l'interlocutore: «Adesso basta, non merito tanto. Non ho ancora vinto nulla d'importante». Pronunciare quelle parole gli pesa parecchio, ma lo aiuta a non perdere il controllo della realtà. E' considerato un maestro, il c.t., un bravo insegnante di calcio, si è preso applausi per il bel gioco mostrato con il Parma, con la Fiorentina, con la Nazionale, però, stringi stringi, la bacheca è vuota. Sembra una maledizione, e così la pensa la gente di Orzinuovi, il suo paese in provincia di Brescia, che se ne torna a casa sconsolata, forse pure arrabbiata. La storia di Prandelli è partita da qui e qui, sui volti delusi di queste persone, è giusto soffermarsi. Per loro sarà sempre e soltanto Cesare, il ragazzino che da chierichetto rubava il calice del vino dall'altare. Anche se non è arrivato sul tetto d'Europa, e anche se non ha ancora medaglie sul petto, la sua è un'avventura da raccontare.
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Gazzetta: Maestro Prandelli e le imprese solo sfiorate
Quando i complimenti superano il livello di guardia, e ultimamente gli è capitato spesso (anche a sproposito o per pura piaggeria), Prandelli dice una cosa che gela l’interlocutore: «Adesso basta, …
Cominciamo dal nome, perché anche in questo particolare Prandelli è stravagante: Claudio Cesare. Così è registrato all'anagrafe ed è stato il grande colpo di mano di suo padre. Questa la faccenda: i genitori si accordarono per il nome Cesare, dedicato al nonno, ma al papà piaceva moltissimo il nome Claudio, e quando andò nell'ufficio del comune non resistette e fece il golpe. Disse all'impiegato che il bambino Prandelli aveva come primo nome Claudio e come secondo nome Cesare. Poi, ritornato a casa, non rivelò nulla. Il piccolo Prandelli scoprì la verità soltanto a sei anni, quando la maestra di prima elementare fece l'appello. Non fu un trauma, ma poco ci mancò. E in questo episodio, in questo doppio nome, c'è molto del carattere dell'attuale c.t. della Nazionale. Lui è Cesare per tutti, Cesarino per gli amici: pacato, equilibrato, razionale, modesto, gran lavoratore. Però, pochi lo sanno, c'è anche un Claudio Prandelli: la parte creativa, l'estroso, quello che ama l'arte e la pittura, quello che s'innamora (ricambiato) dei fantasisti-matti-da-legare, li mette in campo contro ogni logica, li difende e li protegge come fossero una razza in via di estinzione e li piazza al centro di ogni progetto. Vengono in mente i Cassano e i Balotelli di oggi, è ovvio, ma non ci si può mica dimenticare dei Morfeo, dei Mutu, degli Adriano che lui ha svezzato, coccolato, guidato più come un padre che come un allenatore. Un po' Cesare e un po' Claudio: ecco il destino di Prandelli.
Architetto no
Centrocampista cresciuto nella bassa lombarda, tante corse in mezzo alla nebbia e tanti sogni. Prima la Cremonese, in serie C e in serie B, poi l'Atalanta in serie A e, nell'estate del 1979, la svolta della carriera: Juventus. Ci si trasferisce a Torino, a casa Agnelli. Trapattoni allenatore, Boniperti presidente. Lui è Cesarino, un ragazzo di 22 anni che si mette a disposizione, sta ad ascoltare le lezioni tattiche e i discorsi di spogliatoio. Impara. Voleva diventare architetto, studia da mediano. Il Claudio che è in lui, un giorno, propone a sua madre d'iscriversi al Liceo Artistico. «Meglio l'Istituto per Geometri, è una sicurezza». Cesare si piega, Claudio ci rimane male, ma capisce. A Torino la Juve è una scuola. Di calcio e di vita. Zoff e Scirea, per un ragazzo di Orzinuovi, provincia di Brescia, sono eroi, punti di riferimento, esempi da seguire. L'arte, la sua passione, la coltiva fuori dal campo, un po' di nascosto: legge, si documenta, frequenta musei quando può. E condivide tutto con Manuela che in quel periodo diventa sua moglie e poco dopo gli darà due figli, Niccolò e Carolina.
Mestiere
La Juve è una palestra di calcio per Prandelli. E quello che il Trap gli trasmette, a livello tecnico, a livello tattico e soprattutto come filosofia spicciola, lui lo scrive nel taccuino, lo manda a memoria e, una volta diventato allenatore, lo racconta ai suoi giocatori. Prima ai ragazzi dell'Atalanta, quando comincia nel 1990, poi a quelli più grandi, a quelli del Lecce, del Verona, del Venezia, del Parma e della Fiorentina. La lezione è sempre quella: cambiano le regole tattiche, gli schemi, i metodi di allenamento, ma alla base ci sta sempre quella che Prandelli considera la benzina indispensabile, la Passione. Con la P maiuscola, perché dev'essere ben chiaro che fare il calciatore è sì un mestiere, ma non è come andare in banca: o si ama correre, lottare, sacrificarsi per i compagni, oppure è meglio pensare a un altro futuro. Cesare, con i giocatori, con tutti, cerca di instaurare un rapporto speciale. Non è soltanto il loro tecnico, non gli basta quel ruolo. Vuole ascoltare i loro problemi, vuole essere un po' psicologo e un po' amico. A Parma, quando lo chiama Arrigo Sacchi nel 2002 per affidargli la panchina, cerca di aprire un ciclo. E il primo pensiero è quello di costruire un gruppo che assomigli a una famiglia. Un esempio che dal passato porta al presente: lo staff di tecnici, preparatori e fisioterapisti che c'è adesso in Nazionale Cesare lo costruisce proprio a Parma. Il gruppo è il segreto del successo. In Emilia lega con la città e con i tifosi che, quando se ne andrà due anni più tardi, gli mandano questo messaggio scritto su uno striscione: «Prando adottami». Il Parma di quel periodo è un cantiere: si provano moduli, si valutano giocatori, si fanno riunioni su riunioni. C'è l'ambizione di creare una società che punti sul gioco e sui giovani venuti su dal vivaio. Prandelli arriva quinto alla prima stagione e poi scoppia lo scandalo del secolo, quello della Parmalat. E' una botta pazzesca, l'impero dei Tanzi si sbriciola e Cesare deve tenere unito il gruppo, pensare soltanto al calcio e fare in modo che i suoi giocatori si dimentichino degli stipendi che non arrivano. E' talmente bravo che conquista il quinto posto anche in quelle condizioni. La verità, e questo risultato ne è la prova, è che Prandelli è un favoloso incantatore di serpenti, sa come domarli, addormentarli, portarli dalla sua parte. Difficile che qualcuno si ribelli.
Dolore
Nell'estate del 2004, dopo l'addio al Parma e la firma del contratto con la Roma, il momento più difficile. Alla moglie Manuela viene diagnosticata una grave malattia. Prandelli non se la sente di continuare ad allenare, dice stop. Abbandona la panchina e si stupisce dello stupore altrui: «Ho fatto una cosa normale, ho deciso di stare vicino alla mia donna» dice. Nessun rimpianto. Riprende nel 2005, a Firenze. E conquista tutti. Propone una squadra che ha voglia di sorprendere e questo coraggio è una cosa abbastanza nuova per una squadra italiana di medio livello. Nel 2007 la malattia sconfigge Manuela ed è un colpo terribile. Il calcio aiuta Cesare a non pensare, ammesso che sia possibile non pensare a una tragedia del genere. Nella stagione 2009-10 la Fiorentina batte due volte il Liverpool in Champions League e viene eliminata agli ottavi dal Bayern Monaco per colpa dell'arbitro Ovrebo che regala ai tedeschi un gol in netto fuorigioco. Ma, nonostante l'uscita dalla Champions, Prandelli vince: i giocatori sono con lui, i tifosi pure. E quando a fine stagione, estate del 2010, se ne va da Firenze, ci sono parecchi mugugni: la gente non capisce, dà la colpa ai Della Valle per quell'addio.
Regole
L'arrivo in Nazionale è qualcosa di inaspettato. Prandelli si ricostruisce come allenatore e come uomo. La panchina azzurra gli dà slancio, è un'esperienza che lo arricchisce. E la nuova storia d'amore con Novella Benini lo ringiovanisce. Prandelli è sempre un po' Cesare e un po' Claudio. E' Cesare quando impone il codice etico per l'Italia, quando detta regole intransigenti, quando pretende che lo spartito tattico venga rispettato fino all'ultima virgola. E' Claudio quando decide di puntare sui cavalli pazzi Cassano e Balotelli, quando sterza in corsa all'improvviso e passa dalla difesa a 4 alla difesa a 3 all'inizio dell'Europeo per poi tornare indietro dopo due gare, quando non sta ad ascoltare chi gli consiglia questo o quel giocatore e si basa soltanto sulle sue certezze. Lui non avrà ancora vinto nulla d'importante, è vero, ma ha dimostrato di poter fare convivere l'ordine e la fantasia, il genio e il rigore, l'architetto e il geometra. Claudio e Cesare, appunto.
La Gazzetta dello Sport
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