«Mi devo aspettare dei problemi, ragazzone?», chiede Tom Hanks nel «Miglio Verde» vedendo per la prima volta il monumentale John Coffey. Così i cinefili penseranno che anche Montella, ogni volta che gli consegna una maglia da titolare, gli ripeta quella domanda: «Mi devo aspettare problemi, ragazzone?». Perchè Modibo Diakité, con quel fisico da masso della Gonfolina impeciato, sembra un Jonh Coffey del pallone. Un gigante scuro e guascone col compito di imprigionare il centravanti nemico. Un angelo nero chiamato a negare il paradiso del gol alla squadra avversaria, altro che Fausto Leali e quella sua canzone melensa.
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Diakité, un duro con il cuore
«Mi devo aspettare dei problemi, ragazzone?», chiede Tom Hanks nel «Miglio Verde» vedendo per la prima volta il monumentale John Coffey. Così i cinefili penseranno che anche Montella, ogni volta …
Sì, Diakité, con quei pettorali larghi come una chiatta e le cosce massello da discesista austriaco, sembra davvero per fisionomia uno stopper di altri tempi. Di quelli di prima della zona che picchiavano chiunque entrasse in area di rigore. Certo, ognuno lo faceva per motivi diversi. Passarella picchiava per piacere. Vierchowod perchè non conosceva la parola «limite», Della Martira perchè gliel’avevano detto, Hysen perchè non aveva capito. Lui, invece, sembra picchiare solo per necessità, con la leggerezza ironica di chi sa affrontare la vita col sorriso dentro. Non a caso, dicono che nello spogliatoio sia uno dei primi nel lucidare di buonumore il gruppo. Non a caso qualche ristoratore fiorentino lo ricorda per le scorpacciate di bistecca in compagnia di amici, che è sempre un modo buono per respingere l’anemia comportamentale.
In fondo, seppur francese, quando lo vedi correre davanti alla Fiesole, intuisci che sotto quella corrazza nera si nascondano fibre africane, movenze feline seppur in taglia oversize. E il cuore di un difensore africano non potrà mai avere l’intransigenza gelida di uno scandinavo, la ferocia di un argentino o la cattiveria di uno slavo. No, il cuore di un africano è diverso. Può essere folle come quello di Lassissi (che nel 2001 prima travolse da solo la Roma di Bati e poi, nel dopogara, non si fermò, travolgendo con l’auto un cassonetto dell’immondizia e la vigilessa che voleva multarlo), ma mai feroce come quello del giornalista, italiano, che ha detto di non vedere in lui «sguardo intelligente». Un velo pietoso.
Certo, il nostro non è un campione. Ma quando gli capita di scendere in campo, sembra sempre pronto a tirar fuori il cuore e farlo andare su di giri fino al limite dell’esplosione. Il sacrificio che corregge il valore. Sono doti anche queste. E per queste, se Modibo Diakité decidesse di restare anche l’anno prossimo a Firenze, non sarebbe uno scandalo. Le grandi squadre si fanno coi grandi talenti e con chi sa stare nell’ombra della panchina con stile. Roba che al John Coffey del prato verde riesce alla meraviglia. Sembra quasi un film americano.
Stefano Cecchi - La Nazione
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