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Addio Petisso, gigante di simpatia

Ma come, Petisso, te ne sei andato? Eravamo pronti a farti gli auguri per i tuoi novant’anni, tra un mese, con l’amore della Fiorentina e del Bologna. Te ne sei …

Redazione VN

Ma come, Petisso, te ne sei andato? Eravamo pronti a farti gli auguri per i tuoi novant’anni, tra un mese, con l’amore della Fiorentina e del Bologna. Te ne sei andato all’improvviso, vecchio ragazzo che scaricava pacchi di giornali davanti alle edicole di Buenos Aires, figlio di un ciabattino italiano. Il calcio era la tua vita, ti vogliamo idealmente al centro del campo, da solo, per dirti che ci hai lasciato splendidi ricordi, è vero, ma sempre più lontani. A Napoli lo chiamavano maestro e gli davano del voi, buongiorno maestro. Viveva in un appartamento a Fuorigrotta, con una terrazza che dà sullo stadio di San Paolo.

Ti arrivi un abbraccio, Petisso. Un abbraccio nel quale ci permettiano di includere idealmentei i tifosi viola che ti portarono in trionfo all’epoca del secondo scudetto della Fiorentina, quello con Superchi, Rogora, Mancin, Esposito, Ferrante, Brizi, Rizzo, Merlo, Maraschi, De Sisti, Chiarugi. Amarildo, Stanzial, Pirovamo, Cencetti, Danova, Mariani, Bandoni. Un abbraccio a cui partecipi Nello Baglini, presidente, con accanto Ennio Raveggi, detto Pallino, molto più che un massaggiatore. Un abbraccio anche dai tifosi del Bologna, che ti ricordano insieme con Bulgarelli, Savoldi, Vieri, Roversi, Bellugi, Ghetti, Pecci, Landini, Cresci, Cereser, Valmassoi. Disse pochi giorni fa un suo amico: «Pesaola ha una forte fibra». Però non poteva muoversi da casa. Aveva un aiuto ed era naturalmente in contatto con il figlio, laureato in filosofia, che vive a Roma. Splendido Petisso, ossia il piccoletto, venuto su ad Avellaneda con il sogno del pallone. A sedici anni entrò i primi passi nel River Plate.

C’è un episodio che abbiamo sentito raccontare dal figlio e che non è fantasia. Da ragazzo, Bruno calciava di destro e basta. Il fratello gli fece capire che per diventare qualcuno nel calcio doveva usare anche il sinistro. Lo portava su un campo, non da calcio, gli legava il capo di una funicella alla caviglia destra, l’altro capo a un albero, e lo faceva palleggiare in continuazione di sinistro contro un muro. Nacque così l’ala sinistra Pesaola. Le sue squadre in Italia da calciatore? Roma, Novara e Napoli dove arrivò subito dopo lo svedese Hasse Jepsson. In totale, a fine carriera, 294 partite e 62 gol. Come allenatore arrivò a Firenze nel ’55. Abitava nella zona di Coverciano con la moglie, che era stata Miss Sanremo. Durante la stagione dello scudetto diceva sempre: «Prima bisogna vincere, poi se ne parla» con quel suo slang da argentino indolente che non dimeticheremo. Viaggiava su una «500». La sua squadra faceva simpatia, non meno di lui e del suo cappottone color cammello che portava come un amuleto anche nei mesi caldi.

Quando la Fiorentina giocò a Napoli, e stravinse, il Petisso fu applaudito a scena aperta. Sì, una autentica ovazione, con il cuore di una grande città che non lo aveva dimenticato. L’addio dalla Viola avvenne anni dopo una sera, in una stanza dello stadio. Pesaola e Baglini fecero un brindisi con bicchieri di carta e acqua minerale. Altre squadre in carriera? Da giocatore nel Genoa e nella Scafatese. Da allenatore anche nel Bologna che amava tanto e con cui vinse la Coppa Italia del ’74. La puntata finale in Grecia, nel Panathinaikos. Avremmo voluto dirgli: Petisso, affacciati in terrazza, fai finta di vedere Firenze e Bologna. Siamo tutti lì. Ci siamo lo stesso, ma spegni la sigaretta.

Giampiero Masieri - La Nazione