Trent’anni di arbitraggi costruiti su due parole. «Decidi e prosegui». Sembra semplice, e invece... «Lasciarsi alle spalle un episodio dubbio, andare avanti senza che la tua sicurezza ne sia intaccata, è un esercizio difficilissimo, in ogni partita, anche se ne hai trecento alle spalle...». L’anno che verrà – il diciassettesimo in Serie A – sarà l’ultimo, da arbitro, per Gianluca Rocchi. Lui si sta già preparando a quando passerà, è inevitabile. «Quando ci penso, mi viene in mente Totti, il suo discorso di addio, quella parola che non ha provato vergogna a pronunciare: “paura”. Sì, quello che c’è dopo un po’ fa paura. Quest’ultima stagione me la voglio proprio godere, e vorrei che fosse all’altezza delle mie migliori, per questo mi sto preparando ancor più duramente». Il quartiere di Soffiáno, sulla strada che porta a Scandicci, è il cerchio della sua esistenza. Ci si arriva con la tranvia da Santa Maria Novella. Intorno alla casa, cipressi alti e schietti, musica di cicale, voli di zanzare. Dentro, nell’appartamento in cui ha abitato finché non sono arrivati i figli, i memorabilia di una vita sui campi, da quelli polverosi delle categorie inferiori a quello di Baku, dove a fine maggio ha diretto la finale di Europa League tra Chelsea e Arsenal, un po’ la ciliegina sulla torta di una carriera cominciata nel 1989.
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Rocchi, cosa la spinse a iscriversi al corso da arbitro?
«La passione per il calcio e la consapevolezza che da calciatore non avrei combinato granché. Giocavo a centrocampo, gli Allievi nella Cattolica Virtus, poi la svolta...».
Oggi sarebbe lo stesso uomo se non avesse fatto l’arbitro?
«No, non avrei potuto trovare nulla di più educativo. Una professione che si basa sul rispetto delle regole, e insegna a relazionarsi con gli altri. L’arbitraggio mi ha formato innanzitutto come uomo».
Perché la definisce una professione? Lei che mestiere fa?
«L’arbitro».
Durante la settimana?
«Potrei risponderle l’agente di commercio, o che lavoro nell’azienda di famiglia (che produce lampade, ndr). Ma io ribadisco: l’arbitro. Sa quanti giorni all’anno trascorre fuori casa un internazionale? Duecento. Uno al primo anno di A? 130. Le sembra che in Serie B si giochi solo la domenica? E in Lega Pro, quante partita a settimana si fanno? Noi oggi siamo al 100% dei professionisti, immaginare che il nostro sia un hobby, è anacronistico. Do per scontato, magari esagerando, che su questo concordino tutti, anche nelle istituzioni calcistiche».
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