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Nuovo stadio e burocrazia: la lettera a Rocco Commisso

Sinistra Progetto Comune tra i firmatari della lettera aperta inviata a Commisso sul futuro della città

Redazione VN

Andrés Lasso, attivista, ex candidato sindaco a Firenze per i Verdi, Tommaso Nencioni, politologo e giornalista sportivo, Serena Spinelli, consigliera Regionale della Toscana, Marco Di Bari, Segretario Comitato Libertà Toscana, Fabrizio Valleri, calciante storico ed ex candidato sindaco per CLT, Sonia Redini, consigliera comunale a Bagno a Ripoli, Francesco Torrigiani, consigliere SPC di quartiere 1, Vincenzo Pizzolo, consigliere SPC di quartiere 5, Antonella Bundu, ex candidata sindaca e consigliera comunale, capogruppo SPC Mauro Vaiani, Presidente Comitato Libertà Toscana, Dmitrij Palagi, consigliere comunale SPC, Giannozzo Pucci, editore, già presidente del calcio storico fiorentino, già presidente della commissione urbanistica a Firenze, Luigi Casamento, consigliere SPC di quartiere 3, Luca Rossi Romanelli, consigliere M5S di quartiere 5, Francesco Gengaroli, consigliere SPC di quartiere 2, Giorgio Ridolfi, consigliere SPC di quartiere 1,e Lorenzo Palandri, consigliere SPC di quartiere 2, hanno scritto una lunga lettera al presidente della Fiorentina, Rocco Commisso, nella quale si concentrano sul nuovo stadio e la burocrazia:

In una recente intervista lei ha puntato il dito contro la "burocrazia", che a suo dire impedirebbe la costruzione e ristrutturazione di nuovi stadi in Italia e a Firenze.

In questo ha trovato subito la sponda politica in Nardella e Renzi, generalmente consoni a dare il proprio placet rispetto ai desiderata dei grossi investitori, qualunque essi siano. Premettiamo che abbiamo apprezzato altre sue uscite e considerazioni, ad esempio quando ha cercato di far capire ai nostri amministratori che la soluzione Mercafir per lo stadio non stava in piedi, ci ha emozionato quando ha parlato del suo desiderio primigenio di ridare lustro al Franchi, pezzo di storia della Fiorentina. Invece nella sua ultima intervista abbiamo trovato alcune considerazioni fuorvianti. Se in altre città come Bergamo o Bologna si è potuto avviare un progetto di nuovo stadio, non è perché in quelle città siano in vigore leggi diverse o ci sia una burocrazia più blanda, ma perché c'è stata, sia da parte della politica che dell'imprenditoria calcistica locale, la capacità di mediare. A Firenze per oltre dieci anni siamo rimasti bloccati su un progetto che non stava in piedi, con una proprietà che fingeva di essere interessata, ma non muoveva un passo, e una politica che andava avanti a forza di “ultime scadenze” che venivano sistematicamente ignorate.

Nell'ultimo anno, quando si è iniziato a parlare di possibile restyling del Franchi, sono iniziati a circolare dei progetti interessanti, ma lo scoglio principale non sono state la burocrazia né la Sovrintendenza, che di quei progetti ne ha avuto in mano uno solo. Sono stati essenzialmente il desiderio del Comune, ormai affezionatosi all'idea Mercafir, e il suo interesse imprenditoriale che non coincideva con quanto i progetti in campo suggerivano. Ci riferiamo in particolare agli spazi commerciali: nel progetto Bandini, apprezzato dal Q2, erano 5000 metri quadri, in quello Casamonti erano 15000, un ettaro e mezzo. Ma anche in quel caso, lei Commisso li definì insufficienti. Se in altre città d'Italia si è arrivati a una soluzione forse è anche perché qualcuno si è accontentato di una quantità di spazi commerciali inferiori ai due ettari. Se ci fosse una prospettiva seria di ristrutturare il Franchi, con un compromesso accettabile sugli spazi commerciali, di progetti adeguati ne arriverebbero a decine. Con un bando internazionale, i migliori architetti del mondo sarebbero entusiasti di cimentarsi. Bisogna misurarsi con la realtà italiana, che è ben diversa da quella americana, non solo per questioni burocratiche: il nostro tessuto sociale è costituito da piccole e medie imprese, e l'apertura di grossi centri commerciali ha spesso un effetto negativo sulle attività già presenti nel territorio. Per un posto creato nella grande distribuzione se ne perdono tre nella piccola, ci dice uno studio francese. La soluzione che dovrà essere trovata dunque non può non tenere conto anche delle esigenze urbanistiche e del tessuto sociale della nostra città, città che negli ultimi 25 anni ha già visto una esplosione di nuovi centri commerciali. Per ripartire dopo la crisi che stiamo vivendo non ci serve una nuova "deregulation". Gli effetti di quello slogan lanciato ormai oltre 30 anni fa da un suo ex presidente, Ronald Reagan, li abbiamo visti nel mondo attuale e sono sotto gli occhi di tutti: stati più deboli nell'affrontare le crisi di qualunque tipo che si sono affacciate e che si riaffacceranno in futuro: crisi finanziarie, sanitarie, economiche, ambientali.

Ci serve una politica che torni a fare il suo mestiere, non che abdichi ulteriormente al suo ruolo, assecondando passivamente i desiderata dei grossi player del mercato. Delle regole da cambiare ce ne sarebbero, ma non sono certo nei piani regolatori che tutelano il territorio o in legislazioni che tutelano il patrimonio artistico. Queste anzi ci proteggono da una speculazione che nei decenni 60-70 in particolare ha visto il territorio talvolta devastato e imbruttito. Sono le regole del mondo del calcio che andrebbero cambiate. Ci aiuti in questo: ad esempio a chiedere un cambiamento di quelle leggi sul "bacino di utenza" che amplificano le differenze tra le squadre più blasonate e quelle più piccole, leggi che in altri paesi con campionati più equilibrati, non esistono. In una lega che lei ben conosce, la NBA, può succedere ai Boston Celtics, la "Juventus del basket", di eclissarsi per un decennio come negli anni 90 e al contempo a una squadra piccola che ha azzeccato gli acquisti giusti, di arrivare vincere il titolo. Se la Juventus ha vinto otto campionati, come lei ci ricorda, non lo deve certo solo al suo stadio: vinceva anche quando giocava in altri stadi, e viceversa squadre piccole che si sono dotate di stadi di proprietà non hanno necessariamente fatto il grande salto (anzi, la Reggiana è persino fallita, e quella storia dovrebbe essere un monito). Ci aiuti contribuendo a un sistema calcio in cui si mettono dei tetti: allo stipendio dei singolo giocatore, all'ammontare complessivo degli stipendi di una squadra, ai ruoli dei procuratori e alle loro parcelle. Questo porterebbe sì, a un campionato più equilibrato, più bello, in cui tante squadre possano ambire al titolo. Ci aiuti a riformare un sistema in cui si mettono a bilancio gli asset e se ne trae beneficio in termini di possibilità di spesa, un sistema quindi che rischia di portare a speculazioni.

Lei ha citato come esempi negativi quello di Milano e di Roma, ma se a Milano e a Roma le cose non vanno nella direzione che lei e altri imprenditori calcistici auspicherebbero, non è per mere questioni burocratiche. A Milano è difficile disfarsi di un luogo che è stato considerato "la scala del Calcio". A Roma, in un contesto che ha visto la speculazione edilizia al suo massimo nazionale, e in cui esiste già uno stadio storico inutilizzato e quindi decadente, il Flaminio, era davvero la scelta più giusta quella di progettare un terzo stadio, ovviamente contornato di alberghi e centri commerciali? Abbiamo molto a cuore la Fiorentina e il calcio e anzi vorremmo a tornare ad appassionarci come ai tempi in cui grandi campioni restavano con noi per anni anche se non c'erano tutte quelle precondizioni finanziarie e immobiliari che oggi sembrano necessarie perché un "top player" possa vestire per quattro stagioni la stessa maglia. Ma ad una cosa teniamo ancora di più che alla nostra squadra ed è alla nostra città. Dopo lo shock che abbiamo vissuto con il Covid-19 dobbiamo mettercela tutta per costruire qualcosa di diverso e di meglio. Perché le morti e le sofferenze non siano avvenute invano è necessario che le città siano più sostenibili e più belle, non più fragili. Che il territorio sia più tutelato, che il lavoro sia più adeguato, che lo sport torni ad avere prevalentemente un ruolo ricreativo anziché essere prevalentemente business. L'idea di una ripartenza sotto il segno del "come prima, più di prima", dobbiamo rispedirla al mittente, tanto nello sport come nel resto delle vicende economiche sociali e politiche, perché la storia ci sta chiamando a una svolta.

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