L'ex Primavera della Fiorentina Alessio Fatticcioni ha rilasciato questa mattina un'intervista al Tirreno dove ripercorre la sua carriera dagli inizi fino al ritorno al suo Piombino. Nel mezzo la parentesi con la maglia viola:
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Fatticcioni: “Dalla Primavera viola all’Eccellenza. Così il sogno è svanito”
"Negli anni della Primavera noi andavamo bene rispetto alla prima squadra. Il primo allenamento con Mihajlovic..."
Con la Primavera diventasti un beniamino dei tifosi.
"Perché la prima squadra andava maluccio e noi invece andavamo bene, attiravamo l’attenzione. Ci seguivano anche gli ultrà, per noi fu una bella spinta. La gente ti riconosceva anche per strada, al ristorante, chiedeva una foto. Era eccessivo, in fondo non avevo fatto niente".
Ricordi il primo allenamento con la prima squadra?
«Eccome. L’allenatore era Mihajlovic, ero emozionato. Però c’era tensione, poco spazio per le risate. Mi sono goduto il momento ma sempre restando concentrato perché a farsi mandare a quel paese da Miha non ci voleva nulla».
Cosa ti ha colpito al primo impatto coi giocatori di serie A?
"A parte il ritmo, il fisico e la tecnica? La mentalità, la testa di un giocatore di serie A. Professionisti che curano i dettagli, il cibo, il sonno, l’atteggiamento. Penso a Frey e Gamberini, gente che non aveva neanche bisogno di parlare. Capitani rispettati da tutti. Io rubavo con gli occhi perché non bastano gli allenamenti, ci devi mettere il tuo".
Anche tu poi ti rivolgesti a un procuratore?
«Sì, più che altro un amico di famiglia. Credevo che magari più avanti mi sarebbe potuto servire. In effetti alla fine del secondo anno Primavera riuscì a strappare a Corvino un vero contratto professionistico. Tre anni più l’opzione sul quarto. Nel frattempo fu rivoluzionata la prima squadra. A me però bastava una squadra di C per giocare coi grandi. C’era la Carrarese per esempio, in C1, dove andarono Taddei, Bagnai e quel Piccini che ora gioca nel Betis Siviglia. Ma il diesse del Campobasso, in C2, era amico di Corvino. E mi mandarono lì in prestito secco di un anno. A metà luglio partii in ritiro vicino a Salerno e capii dove ero finito. Mancavano il massaggiatore, il dottore, il ghiaccio, le medicine. Tornai a Campobasso e, la sera prima del debutto in Coppa Italia, lo stadio era stato chiuso dal Comune. Tutti gli accordi saltati, niente vitto e alloggio. Il presidente venne negli spogliatoi scortato dalla Digos. Ho visto giocatori disperati dormire in macchina. Nel girone di andata giocai solo 5 o 6 partite. Così a gennaio decisi di venire via. Il presidente Ferruccio Capone accettò, a patto che rinunciassi a tre mensilità. Allora ti pagavano ancora a scadenza di tre mesi. Corvino ci convinse ad accettare, la Fiorentina chiese la rescissione e firmammo tutti. L’ultimo giorno di mercato, a fine gennaio, andai a Milano col procuratore. Corvino mi aveva promesso che, nel caso in cui non avessimo trovato niente, sarei rimasto a Firenze. Alle 19 si fece avanti L’Aquila che chiese in cambio solo una specie di premio di addestramento, sei o settemila euro. E Corvino disse no. Perché io sarei stato un peso per la Fiorentina. E non depositò volutamente quel contratto già firmato. Mi ritrovai ancora legato al Campobasso. Ma come avrei potuto tornare laggiù? Così venni a Piombino e in quei tre mesi mi allenai a Salivoli. Poi intrapresi una battaglia legale con Corvino che fu squalificato per tre mesi».
E passasti al Gavorrano.
«Sì. Quell’estate i nuovi diesse Pradè e Macia fecero piazza pulita anche nelle giovanili. Via tutti, compresi Carraro e Iemmello che ora gioca nel Sassuolo. Io fui chiamato da mister Buso al Gavorrano, in C2. In comproprietà, poi a titolo definitivo. Due anni bellissimi. Il primo giocai 32 partite e fui convocato nella Nazionale di C. La stagione dopo giocai quasi tutte le partite ma retrocedemmo, purtroppo era l’anno in cui si passava alla Legapro unica e su 18 squadre ne scendevano 9».
Fu l’anno della Sardegna.
«E delle assurdità. L’ultimo giorno di mercato il mio procuratore trattò il passaggio di Bigazzi, ex Livorno, alla Torres Sassari. E infilò nel pacchetto anche me. Bigazzi poi si ruppe il crociato. Io a mia volta arrivai troppo tardi, quando la squadra era già definita. Ero il secondo più giovane e il quarto centrale. Stavo bene a Sassari, ma non trovavo spazio. A metà gennaio mi scaricarono e firmai la rescissione. Lo Scandicci in serie D mi voleva e io ci andavo stravolentieri, l’allenatore era Ciccio Baiano. Prima trovammo l’accordo, poi si scoprì che era tutto nullo: avrei dovuto firmare la rescissione prima del 31 dicembre per passare da professionista a dilettante. E il mio procuratore non lo sapeva. Tornai ancora a Salivoli, ad allenarmi per altri tre mesi. La fine del mio rapporto col procuratore arrivò quando mi fece saltare anche l’ingaggio del Montecatini perché voleva mandarmi alla Recanatese, sempre come pacco allegato a un altro giocatore. A quel punto dissi basta. Da tempo Enzo Madau, il diesse del Piombino, faceva pressioni su di me. Accettai. E devo dire che sono felice».
Dal sogno della serie A all’Eccellenza.
«Non esageriamo. Certo, il sogno era quello, ma anche meno. Cerco di non pensarci. E se è andata così è per tanti motivi. Ci metto anche i miei errori. Però ho imparato tanto».
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