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I 50 anni di Baggio, David Guetta racconta: “Firenze, le barzellette e i gol”

L'articolo del giornalista sul Corriere Fiorentino in occasione dei 50 anni di Roberto Baggio

Redazione VN

Sul Corriere Fiorentino di questa mattina troviamo un bell'articolo a firma David Guetta in cui si ricorda Roberto Baggio che oggi compie 50 anni.

Oggi Roberto Baggio compie 50 anni. Uno dei campioni più amati del calcio italiano arrivò a Firenze giovanissimo e qui superò il dramma di un infortunio che avrebbe potuto fermare la sua brillante carriera. Il racconto degli anni fiorentini, tra litigi con i vari allenatori, le partite a carte con i senatori e le barzellette raccontate in latteria.

Oggi Roberto Baggio compie 50 anni. Il numero 10 nato a Caldogno è rimasto nei cuori dei tifosi di tutte le città dove ha giocato, in quello dei fiorentini in particolare. Qui un ricordo dei suoi anni alla Fiorentina, dove è arrivato giovanissimo e da dove è partito per diventare uno dei calciatori più amati e apprezzati di sempre. Buon compleanno campione!

«Ho passato giorni, settimane, mesi, sdraiato su un letto a fissare il soffitto e a chiedermi se sarei riuscito a giocare ancora a calcio, cosa vuoi che mi importi se Eriksson mi vede poco o se davvero dovrò andare in prestito al Cesena?». Autunno 1987, i primi freddi e davanti allo stadio, dentro una macchina col riscaldamento acceso, il ventenne Roberto Baggio si confessa a microfono spento.

Formidabili quegli anni, quando esisteva la confidenza tra chi giocava e chi parlava di calcio. Già da allora si capiva che il ragazzo era speciale e non solo per quello che esprimeva in campo. Molto tempo più tardi un grande come Carletto Mazzone, che lo ha allenato per quattro stagioni a Brescia, un record, amandolo calcisticamente alla follia, avrebbe tirato fuori una frase che racchiude tutta la poesia del Baggio calciatore: «Beati i palloni che hanno potuto giocare con lui».

Alla fine però questo lo hanno visto tutti. O quasi tutti, perché non è mai piaciuto troppo a chi stava in panchina. Lasciamo perdere Trapattoni, che poi non lo volle in Nazionale per il tanto sognato quarto Mondiale, Sacchi il «matto», Ulivieri, il nemico Lippi: limitiamoci agli allenatori viola. Appena arrivato in ritiro nel 1985, e con un ginocchio fracassato, il ragazzino si mise immediatamente a giocare a carte con Passarella e qualche altro senatore, esibendo al polso un quantitativo di braccialetti che fece sobbalzare Agroppi. Non si piacquero da subito e finirono per sfogare la reciproca antipatia in una memorabile litigata tre anni dopo in uno studio televisivo.

Bersellini era più tranquillo e poi aveva allenato Beccalossi, dunque si intendeva abbastanza di calciatori atipici. Il problema fu che alla seconda giornata si fece di nuovo male e riapparve solo a campionato quasi finito, in tempo però per firmare il 10 maggio 1987 il suo primo gol in serie A a Napoli, nel giorno del primo scudetto partenopeo. «Gli feci battere la punizione e lui realizzò una magia», ha detto recentemente Antognoni, che in quella gara consegnò idealmente la sua maglia numero dieci al ragazzo di Caldogno.

Di Eriksson abbiamo detto: avrebbe preferito Gerolin perché Baggio era fuori da qualsiasi schema e non si integrava con le sue idee tattiche. E non importa se a San Siro avesse vinto quasi da solo contro il Milan di Sacchi, il problema era tutto nella rigidità zemaniana dello svedese. Per fortuna in società bloccarono lo scempio e il trasferimento in prestito non si fece. Poi ci fu l’equivoco Giorgi. Tutti pensavano che sarebbe stato il tecnico ideale per Roberto perché era stato l’allenatore che lo aveva lanciato nel Vicenza, come se si stesse parlando di un uomo-spogliatoio, un Dunga tanto per intendersi. L’equivoco era che invece Baggio ha sempre rappresentato (magnificamente) solo se stesso. Nessuna difesa di alcun genere di Giorgi quando le cose cominciarono ad andare male, ma anche nessun attacco personale, perché lui era ed è fatto così: uno splendido anarchico a cui bastava divertirsi col pallone, come quando giocava nel campetto dietro casa sua. Graziani nell’ultimo estenuante mese a Firenze gli disse: «Non tornare mai indietro a centrocampo e pensa solo a fare quello che ti riesce».

Cioè tutto. Ma dicevamo del ragazzo diventato uomo presto, grazie al dolore fisico e anche psicologico, quello che fa crescere per non soccombere. L’incontro col buddismo ha completato una formazione interiore che la solida origine

 Fotografie Qui ha lasciato tanti ricordi, ma ci piace ricordarlo quella sera al Franchi mentre spinge la carrozzella del suo sfortunato gemello Borgonovo

Baggio con Borgonovo nel 2008 contadina aveva solo abbozzato. Riuscire a relativizzare il successo, a trattare come si deve «questo impostore» è stato il dribbling più bello di Baggio, applaudito a scena aperta dalla gente comune più che da quella del calcio, che al contrario lo ha sempre guardato con sospetto.

Troppo poco in linea con l’esibizionismo pallonaro, troppo fuori dagli schemi, troppo diverso. Non è un caso che due città «mediane» come Bologna e Firenze siano entrambe convinte di essere rimaste nel suo cuore più di ogni altro posto da lui abitato in carriera, metropoli comprese, ma qui da noi ci sono stati cinque anni di passione vera. Un matrimonio consumato con gol straordinari e con gesti rimasti nella storia. Due sciarpe: la prima della Juve rifiutata il giorno in cui con un imbarazzo vicino alla vergogna annunciava il suo passaggio in bianconero. La seconda, viola, raccolta il 6 aprile 1991, qualche minuto dopo il gran rifiuto di battere un rigore contro la «sua» Fiorentina. Giusto un anno prima aveva detto la famosa frase: «Ma ve lo devo scrivere sui muri che non vado a Torino?». Una settimana più tardi i viola giocavano a Roma con la Lazio e in tribuna avvenne il primo contatto tra Flavio Pontello e Mario Cecchi Gori, che avrebbe comprato la società e che voleva in tutti i modi Baggio in viola.

Chi scrive ebbe la fortuna di rientrare a Firenze in macchina con lui e Dunga, e davvero sembrava sincero quando si informava di come stesse procedendo la trattativa, sperando che con Cecchi Gori le cose si potessero sistemare. Si disse che fu ricattato per via della Nazionale, ma sembrano leggende metropolitane, perché il talento era ormai sbocciato ed era impossibile girarsi dall’altra parte anche se fosse rimasto qui. Invece andò via, dopo aver sbagliato due reti nella finale Uefa a Torino, e scoppiò la guerriglia urbana. Inaccettabile da qualsiasi punto di vista e però esibita ancora con malcelato orgoglio da chi c’era perché «Baggio era uno di noi».

Oggi che compie cinquant’anni ci piace più ricordarlo con i capelli grigi, non più straordinario artista, ma ormai uomo maturo, mentre spinge una carrozzina dove è seduto il suo primo e più vero sfortunatissimo gemello, Stefano Borgonovo. In quella sera di ottobre del 2008, a oltre diciotto anni dall’addio, il filo della memoria si riannodò e Robertino tornò ad essere quello delle barzellette raccontate alla latteria vicino allo stadio, quello degli amici presi sotto braccio ovunque si trovasse. Uno di noi.

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