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Il ritratto di Jordan, parlante con il corpo: il ciuffo biondo, l’inno, il messaggino e quell’unica parola…

Sono dieci in stagione: Veretout non si ferma. Adesso è il suo momento, come non lo era mai stato

Giacomo Brunetti

"Ha fame, schiaccia il cinque a Chiesa con l’espressione del duro e il sorriso dei ragazzini. È il ritratto della semplicità. Non una banale e retorica descrizione. Semplicità, il vocabolo perfetto, l’unico pronunciato in italiano nell’intervista di qualche settimana fa alla Gazzetta. Jordan, con le lingue, non ci sa fare. Con l’italiano ancora stenta, ha scelto il linguaggio universale per comunicare. Che poi è quello più concreto, soddisfacente. Non del calcio, bensì del corpo. Con il baricentro basso, la testa china e la schiena leggermente incurvata, sradica il pallone a Leiva e, inscenando una movenza a passo di ballo, siede Luiz, cambiando piede per insaccare.

"Le braccia aperte, verso la panchina, a suggellare la fine della tappa di montagna nel proprio percorso. "Ne serve un altro per far capire chi sono?". Una corsa iniziata vicino a casa sua, sul campo di Belligné, quando nel 1999 non conosceva ancora il suo destino, quello che gli avrebbe portato in dote la moglie Sabrina e la figlia Aalyah. Un messaggio, niente WhatsApp: “Fai una grande partita, sento che ci riuscirai”, dalla ‘Ma Cherie’, salvata così in rubrica. “La mia donna è un genio”, risponderà poi Jordan. O comunque ti conosce bene, diciamolo.

"La storia o la fanno gli altri e la studi oppure la fai tu e ci entri. E Veretout, dopo aver osservato il poster di Zidane e aver appreso le dinamiche del gioco da Iniesta e Xavi, ha deciso di evolversi, apparendo in riva all’Arno nelle sembianze che nessuno si attendeva, che tutti volevano, o meglio, cercavano. Alla consacrazione ci è arrivato tramite strade diverse, auspicategli impervie, poiché l’Italia per un calciatore francese non è la prima meta che viene in mente. Ci aveva pensato l’Inter, nel lontano 2013, quando era rimasto succube della fama di Pogba e Kondogbia nella gloria della Francia under-20, restando attaccato al Nantes, l’altro affetto. E, in estate, lo voleva trattenere il Saint-Etienne, così come il Marsiglia.

"“Qui si lavora tanto con i video, non ci ero abituato”, svelò elle prime visioni del Belpaese. Al quale, alla fine, si è votato per cambiare rotta, cercare la strada per la consacrazione. “Lo stadio è un po’ vecchio, un po’ diverso rispetto alla Francia – ha raccontato con le parole dello studente in Erasmus che coglie le sfumature piacevoli di una permanenza lontano dalle radici - ma c’è una bella atmosfera”, sapendo apprezzare chi adesso lo osanna. Certo, la mamma è la mamma e Parigi è Parigi. Pochi giorni fa il ritorno a casa, per una scappatina a Disneyland con la famiglia.

"“Amo la semplicità, chiaro?”, e così il pallone dell’amara tripletta alla Lazio finirà accanto alla medaglia iridata vinta con la Nazionale. Non c’è nient’altro accanto, sarà perché ha il viso buono ma non è accessibile. È umile, quasi timido con chi non lo conosce. Schivo, innocente, come nel giorno della sua presentazione, dietro le quinte. E non porta orecchini, non ha tatuaggi, neanche pettinature strane, solo qualche ciuffo biondo, mostrato al suo arrivo a Firenze. Come Luis Alberto, l’assassino dei sogni di gloria nella sua serata.

"Quando gli altri cantavano “canzoni da discoteca”, lui intonava l’inno: andò così nella sua prima apparizione al Nantes. Veretout, non banale. Come ieri sera, come durante tutto il campionato. Dopo l’inizio strabiliante rispetto alle aspettative - e alla parodia di ‘Échame La Culpa’ di Luis Fonsi, che ormai recita “Veretout”, è appurato – e un altalenante rendimento nel corpo centrale della stagione, dal tragico marzo la sorte, in campo, è stata decisa anche per lui. Jordan, da tre come Michael. Diciassette, come il numero che porta sulla maglia. Migliaia, come i tifosi che ha fatto esplodere con la sua serpentina. Numeri, messieurs.

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